di Alessio Boccali
“L’altra metà” e una ritrovata naturalezza
Francesco Renga non ha mai avuto paura di rompere gli schemi e di mettersi in gioco. A vent’anni come a cinquanta la sua esigenza di sperimentare e di sconvolgere i suoi piani è sempre forte e il suo “L’altra metà” testimonia proprio questo bisogno, consegnandoci un artista inedito, che ha saputo rinnovarsi e trovare la chiave comunicativa più adatta al suo raccontarsi oggi.
Ciao Francesco, hai dichiarato che “L’altra metà” segna uno spartiacque nella tua carriera guidato dalla voglia di sperimentare e rinnovarti…
Esatto, è proprio questo. È un bel punto di arrivo per me essere riuscito a trovare un mio linguaggio che sia adeguato alla musica che mi circonda. Questo disco è appunto uno spartiacque tra un prima e un poi. Mi ci è voluto un po’ di tempo per arrivare a questa sintesi: già in “Tempo reale” – il mio precedente lavoro – sentivo che la musica stava cambiando e che avevo bisogno di trovare un linguaggio nuovo, che mi tenesse ben radicato nel presente musicale. È comunque una necessità che ho sempre sentito negli anni: ho vissuto varie ere musicali nei miei 35 anni di carriera e questa volta sentivo il bisogno di fare musica che potesse parlare anche alla generazione dei miei figli. Ne “L’altra metà” sono riuscito a trovare una quadra a tutto quanto, anche grazie al confronto con giovani autori e musicisti come Ultimo, Gazzelle e tutti gli altri. È un disco che ha una cifra molto univoca pur essendo altrettanto vario, avevo bisogno di trovare quella naturalezza nella scrittura e nel canto, che fosse contemporanea, ma che rispettasse anche il mio percorso artistico.
Se ripenso ai miei vent’anni, a quando nel ’91 sono stato a Sanremo con i Timoria, ti dico che quel tipo di linguaggio, che pure “sconvolse”, era per noi naturale. In questo Sanremo, quella naturalezza l’ho rivista in artisti come Mahmood o Ultimo.
Come si accennava, questo non è il primo spartiacque della tua carriera: penso al percorso con i Timoria e a quel rock che ha sconvolto la scena musicale italiana dell’epoca. Oggi hai cercato di interpretare la scena italiana contemporanea, sconvolgendo il tuo modo di fare pop e rimettendoti in gioco?
Esattamente. Quando parlo di naturalezza, io faccio riferimento proprio a quel periodo lì: se ripenso ai miei vent’anni, a quando nel ’91 sono stato a Sanremo con i Timoria, ti dico che quel tipo di linguaggio, che pure “sconvolse”, era per noi naturale. In questo Sanremo, quella naturalezza l’ho rivista in gente come Mahmood o Ultimo. Oggi, per me, era questa naturalezza l’obiettivo da raggiungere e per farlo mi sono rimesso in gioco e mi sono sentito vivo. Se fai musica pop con l’intento di comunicare qualcosa e arrivare al pubblico, devi trovare un linguaggio adatto ai tempi che stai vivendo. È una scommessa difficile, ma che è giusto fare. Se a vent’anni la propensione a rompere gli schemi è naturale, a cinquant’anni per rimettersi in gioco ci vuole più tempo, ma vale la pena farlo.
Nel pezzo “L’amore del mostro” parli di “Lato nascosto che sai solo tu…”. È questa l’altra metà che dà il nome al disco?
Sì, l’altra metà è quella parte di noi che, per paura, per pudore o perché ancora non siamo riusciti a comprenderla, tendiamo a nascondere. Tuttavia, per me, è anche quell’aspetto, quel sentimento che viene sempre fuori quando scrivo una canzone, ma che diventa condivisibile quando trovo qualcuno con il quale ti viene naturale condividerlo.
“Che strano finire anche noi, che abbiamo dato tanto e raccontato di quel viaggio…”. Questa è la frase che più mi ha colpito della tua “Finire anche noi” contenuta in questo album e che, alla luce di quello che ci siamo detti, ricollego allo spartiacque che hai voluto mettere nella tua carriera con questo lavoro. Ti ha creato smarrimento questo cambiamento?
Hai colto perfettamente la profondità di quel pezzo. In quella canzone c’è la fatica, il tormento, lo smarrimento, ma c’è anche il ritorno a un qualcosa di diverso, l’opportunità di rinnovarsi.
Abbiamo detto che, con questo disco, la tua esigenza più grande era quella di trovare un linguaggio moderno da tutti comprensibile con il quale comunicare senza filtri davvero con tutti quanti; passa da qui, quindi, l’esigenza di tornare a suonare anche nei teatri?
Sì, da quando sono più attivo sui social ho percepito nel pubblico l’esigenza di sentirsi più vicino alla mia musica e quella di esibirmi nei teatri era una richiesta che mi arrivava da più parti. Anch’io poi avevo voglia di ritornare a quell’intimità, a quell’atmosfera. A teatro apprezzi di più tante cose. A teatro quando è buio, è buio. Nei palazzetti, invece, non c’è mai il buio.