GIAMPAOLO ROSSELLI

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di Cristian Barba

La narrazione che accompagna i prodotti discografici li presenta spesso come sorprendenti, eccezionali, sbalorditivi. La realtà è che la musica, come la storia, si ripete.

Discografico, talent scout, produttore artistico. Giampaolo Rosselli naviga le acque dell’industria discografica da decenni, nei quali ha lavorato per le principali major e con artisti del calibro di Lucio Dalla, Antonello Venditti, Giorgia, Luca Carboni, Le Vibrazioni, Samuele Bersani e Simone Cristicchi. In un mondo che si aggiorna con una velocità senza precedenti, ci sono personalità che restano e la cui esperienza può farci da faro per non perdere la rotta.

Ciao Giampaolo. Se dovessi fare una panoramica sulle trasformazioni del mondo della discografia da quando ci sei entrato a oggi, cos’è che ti manca di più e cosa invece non ti fa rimpiangere il passato?
È cambiata completamente la fruizione della musica da parte delle persone e mi manca la visione della musica come oggetto culturale con una struttura fisica. Il cd era un oggetto di valore, oggi quasi te lo tirano dietro. Così è mutato anche l’essere artisti: prima l’artista era uno che faceva i dischi e si conosceva solamente la sua arte, oggi ne abbiamo alcuni che a un certo punto ti scordi pure che facciano i dischi, perché stanno tutti i giorni in tv o sui social. Ovviamente viviamo in un mondo nel quale neanche il migliore può pensare che fare musica sia suonare e basta, non possiamo fare i Don Chisciotte. Al tempo stesso però la sovraesposizione dell’artista svilisce la sua arte. Personalmente ho dovuto cambiare il modo di impostare la ricerca di un artista e imparare a programmare una carriera più che un disco. Prima non era più facile, era diverso.

Parlavi della presenza, un elemento che oggi appare imprescindibile e che discograficamente si traduce nella necessità di una calendarizzazione che tenga l’artista sotto i riflettori il più a lungo possibile. Questo come pregiudica il lavoro?
Secondo me lo ha peggiorato un po’ dal punto di vista qualitativo. L’arte non può essere programmata. Non puoi dire a un artista “dobbiamo fare un disco a dicembre perché andiamo a Sanremo e nel frattempo inizia a pensare anche a un pezzo per l’estate perché con quello ci facciamo pure una pubblicità”. L’arte non è a comando e dobbiamo anche distinguere tra chi ha bisogno di fare musica e chi ha bisogno di fare soldi. Vanno tutte e due bene, per carità di dio, ma sono due cose diverse.

Tu mi insegni che arte e industria sono due mondi distinti. Quale rapporto li lega?
Un disco costa e senza l’industria non ci sarebbe la possibilità di fare arte. Un disco è un prodotto di squadra, dall’ideazione alla promozione, e l’artista non può fare tutto da solo. Noi dobbiamo capirne e gestirne le evoluzioni. Nel 1966 George Harrison va in India con Ravi Shankar e la musica dei Beatles inizia ad avere delle influenze da quel mondo. Questo significa che tra un disco e l’altro dei Beatles – come dei Radiohead, dei Led Zeppelin o dei Pink Floyd – potevi sentire un’evoluzione o perlomeno vedere una strada. Oggi l’industria opera meno in questo senso perché su Spotify è tutto appiattito, ma non si può ascoltare Lucio Dalla in riproduzione casuale senza una contestualizzazione storica. È come vedere Star Wars senza seguire un ordine.

Definisci il produttore un “allenatore culturale”. Che significa?
Alcuni atleti olimpionici sono partiti da una disciplina e dopo si sono resi conto di essere più capaci in un’altra. Nella musica è la stessa cosa, noi dobbiamo percepire le potenzialità dell’artista e “allenarlo” con input continui, chiedendogli se è andato al cinema, se ha letto quel libro, ascoltato quell’album o visto quello spettacolo.

Ti capita mai di pensare che venga spacciato per nuovo e sorprendente qualcosa che in realtà non lo è?
Si può presentare per nuova una cosa che è stata fatta 30 o 50 anni fa, se poi il pubblico ci casca è un’altra storia. Bisogna guardare il passato per capire il futuro, anche nella discografia. È vero, ad esempio, che una certa scena indie sembra attingere molto dagli anni 80, però è anche comprensibile che un ragazzo nato nel 2000 non conosca con precisione il passato e possa innamorarsi delle stesse cose di cui si è innamorato il padre trent’anni prima. Ovviamente cambia il linguaggio, un po’ come per i remake cinematografici. E poi neanche cercare di sorprendere è una ricerca giustissima. Si fa musica da millenni, che ci può essere di sorprendente? Quello che resta sono le belle canzoni e una bella canzone può prenderti l’anima anche senza sorprenderti. Le classifiche degli ultimi quarant’anni sono piene di dischi che hanno fatto un successo clamoroso ma di cui la gente oggi non ricorda nemmeno l’esistenza.

Come talent scout cos’è che può ancora sorprenderti?
I punti di vista. Le canzoni parlano quasi sempre delle stesse cose, ma sono i punti di vista che cambiano.

C’è qualcuno che ti ha stupito particolarmente nell’ultimo periodo?
Calcutta è uno che ha mostrato una forte personalità nella scrittura e ha fatto adattare molti alla sua impronta, credo abbia un grandissimo potenziale.

 

 

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