Frenetik e l’artigianato musicale.
di Manuel Saad
Daniele Mungai, in arte Frenetik, del duo Frenetik&Orang3, è un produttore romano, polistrumentista e da poco è diventato il direttore artistico dell’etichetta Asian Fake che sta prendendo piede nel panorama discografico italiano.
Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per farci raccontare cosa c’è dietro le quinte.
Cosa vuol dire essere produttori e come ci si diventa?
Per noi, essere un produttore è come essere un sarto. Mettere le tue capacità musicali a servizio di un progetto, per farlo sembrare più bello possibile. Questa è, sicuramente, la sfida che ti porta avanti.
Io nasco come batterista e suono la chitarra da quando sono piccolo. Suonare uno strumento non mi ha mai dato soddisfazione rispetto ad un qualcosa di finito e arrangiato. La voglia di sentire un prodotto creato da me, o con Orang3, è sempre stata più forte di tutto. È un po’ come chi modella la creta: un artigiano.
Attraverso Internet, tutti possono cimentarsi in svariati settori. In campo musicale, ti è capitato di riscontrare una sorta di “prepotenza” da parte di chi non ha un background corposo?
Succede molto spesso questa cosa. Molto probabilmente è successo anche a me, sai?
È giusto accorgersene, perché quando vedi che qualcuno fa qualcosa molto meglio di te e pensi di essere “arrivato”, ritorni con i piedi per terra. Se continui tutta la vita a fare finta di saper fare una cosa, arrivi al punto in cui la gente se ne accorge.
Cosa può farti capire, realmente, che stai andando nella giusta direzione?
Diciamo che una connessione tra riscontri oggettivi e uno studio continuo di quello che si fa, in generale nella vita, deve esserci. In questo mondo, oltre che essere umile, devi sapere cosa sai fare, cosa non sai fare e cosa sei bravo a delegare.
In ambito musicale, questa “prepotenza” di cui parli c’è eccome.
Prima per fare un disco, se non avevi un certo numero di soldi per poter andare in uno studio, non potevi fare nulla. Ora con un computer, una scheda audio e un microfono puoi registrartelo direttamente a casa.
Insieme ad Orang3, vi siete espansi a macchia d’olio nella scena rap romana e non, per arrivare poi a Sanremo con un pezzo “rivoluzionario”, se vogliamo.
Rivoluzionario se vogliamo esagerare, ma sicuramente non è stata la classica sanremata.
Solitamente nel periodo di produzioni per il festival c’è sempre la rincorsa alla hit sanremese, ma in questo caso, il direttore artistico ha scelto un brano che esisteva già da un anno e mezzo e questo ci ha reso molto felici.
Com’è nata “Rolls Royce”?
Circa un paio di anni fa. Prendemmo una villa al Circeo in cui abbiamo passato circa due mesi, allestendo due, tre studi, per vivere un’esperienza immersiva di scrittura e composizione.
“Rolls Royce” è una sorta di inno a ciò che si ambisce di più nella vita, “una rivalsa sociale” di ragazzi che provengono da quartieri disagiati e che si ritrovano a fare soldi grazie al loro talento.
Il vostro album, “Zerosei”, è un gioco inverso: gli artisti si sono adattati alle vostre regole.
Sì, in un certo senso, l’ago della bilancia l’abbiamo fatto pendere verso di noi. Ci piace molto fare musica e quando ti ritrovi a farla con i tuoi amici, riesci a condividere tutti quei momenti magici che poi ti portano a bei risultati. Siamo molto di più per una session in studio, stare insieme e capire insieme. La musica è condivisione, no?
Tu ed Orang3 state lavorando a qualcosa?
Ci siamo fermati un attimo a livello di produzioni. Stiamo lavorando in studio a tante cose. C’è stato uno “Zerosei”, ci sarà sicuramente un seguito.