Un professionista della musica a 360°
di Alessio Boccali
Ciao Stefano, mi piacerebbe ti presentassi da solo…
Va bene. Sono una persona di 55 anni che da 35 fa sempre lo stesso lavoro. Dopo i primi tre anni trascorsi in una piccola radio privata che copriva tre province, sono approdato al gruppo editoriale per il quale ancora lavoro. Mi sono occupato inizialmente di copywriting per la pubblicità, poi ho alternato l’attività di speaker a quella di produzione di programmi radio per altre emittenti. Dal 1990 mi occupo di rapporti con le case discografiche e, dal 2000, questo è stato anche il collante fra radio e il tour Festival Show per il quale coordino l’intera parte artistica.
L’importanza della figura del “professionista del settore”: secondo la tua esperienza, quanto e come è percepita dagli artisti questa essenzialità nell’epoca in cui si accede facilmente a tante cose (la maggior parte delle volte nel modo sbagliato) attraverso la tecnologia?
È una domanda che andrebbe rivolta a loro. Pur non essendo nella testa degli artisti, negli ultimi tempi ho avuto spesso l’impressione che essi siano come ‘disorientati’. Mi riferisco agli artisti reali, quelli che hanno curriculum, pubblico e produzioni consolidate. Probabilmente sono persone che, concentrate sulla loro arte, poco sanno o fanno per sapere quello che succede nel mondo esterno (social, piattaforme digitali, ecc.). Sicuramente sono coscienti che qualcosa, lì fuori, non è più come vent’anni fa. Per quanto riguarda le nuove leve, cioè la miriade di presunti artisti che vengono creati dai contenitori televisivi, sono figli di questa generazione e quindi immagino si trovino a loro agio nella confusione dell’eccesso di informazioni che i media attuali consentono di trasferire a tempo zero.
Negli ultimi tempi abbiamo sentito di parecchi concerti annullati, nei fatti, per mancanza di pubblico e di parecchi sold out fake (non effettivi). Perché tutto ciò? C’è sempre il classico effetto “Bene o male purché se ne parli…”?
Sono stato testimone diretto di questo fenomeno che, a ben guardare, non è proprio solo riferibile agli ultimi tempi. Secondo me si è cercato di trasporre sugli eventi live quanto già si fa da qualche decennio sulla vendita dei dischi. Chi produceva dischi ne comprava una certa quantità per far salire il titolo nelle classifiche (clamoroso il caso dell’album “Tabula rasa elettrificata” del C.S.I. andato al numero uno) con l’obiettivo di mostrare al pubblico che quello era un disco che bisognava comprare. Lo stesso si fa con i concerti: mi è capitato di regalare al pubblico delle radio anche 300 biglietti per un live. È ovvio che questo riempimento forzato, per esempio di un palasport, può funzionare per un po’ ma non per sempre. Alla base dev’esserci comunque un artista credibile e/o delle canzoni che piacciono. Comunque sì, il “bene o male purché se ne parli” è sempre un concetto valido per il marketing, che si vendano detersivi o musica.
Ho letto tanti tuoi post sui sociali e devo dire che sei veramente geniale. Naturalmente, per il mestiere che faccio, quello che mi ha colpito di più è di un pochino di tempo fa e riguarda i consigli, più o meno ironici, che daresti agli emergenti. Te lo ricordi?
Poveretti, gli emergenti. A volte scrivo anche battutacce pesanti su di loro ma è come battere la sella per non battere il cavallo. Gli emergenti non conoscono nulla del mondo in cui stanno muovendo i primi passi. Il primo consiglio che mi sento di dare loro è che avrebbero bisogno di conoscere il significato di puntualità, di umiltà e di consapevolezza. Consapevolezza che nessuno regala loro nulla. Purtroppo, non appena vedono cento ragazzine che li aspettano ad un meet & greet o ad un instore, credono di essere diventati delle star. Sono, invece, solo degli strumenti che servono a far guadagnare qualche soldino alla major per cui lavorano. Major che, appena finito il “lavoro” con l’emergente X, abbandonerà questo per dedicarsi all’emergente Y, e così via.
Per finire, domanda da un millione di dollari. Quando si parla di musica, festival, eventi… rimpiangiamo e allo stesso tempo ammiriamo (quasi sempre e solo) tutto ciò che viene organizzato al di fuori dei confini italiani. Cosa ci manca di più: il denaro, il coraggio, o il senso della realtà per cui tutto ciò che viene fatto all’estero è migliore?
Non è vero che tutto ciò che viene fatto all’estero è migliore. Abbiamo strutture, risorse umane e creatività esattamente come le hanno nel resto del mondo. Quello che, purtroppo, abbiamo in più rispetto agli altri, è la mancanza di meritocrazia. Faccio un esempio: “ti porto l’artista internazionale del momento a Sanremo ma tu mi devi prendere fra i giovani in gara il nome che sto producendo”. Da buon italiano posso capire questi “accordi” per un evento nazionale come Sanremo. Mi fa ridere però quando queste cose si verificano alla sagra della pecora di Perdasdefogu. Non so nemmeno se esista e chiedo scusa agli amici sardi, ma era per farmi capire.