di Alessio Boccali
Alberto D’Ascola aka Alborosie, siciliano di nascita e giamaicano d’adozione, è diventato l’ambasciatore del reggae in Italia e nel mondo. È ormai universalmente considerato come uno dei più grandi artisti reggae viventi e il suo ultimo album “Unbreakeable” è un grande omaggio alle origini del genere confezionato insieme ai mitici Wailers.
“Unbreakeable è un disco roots reggae, registrato con gli Wailers che sono maestri del genere. In un mondo dove di roots, di radici si parla sempre meno, mi sono impegnato tanto per tenere questo genere, questi artisti e l’origine di tutto ciò vivi dentro di noi.”
Ciao Albo, dici sempre che per la tua musica hai lasciato l’Italia. Cosa ti ha più spinto a fare questa scelta: il modo in cui viene trattato chi fa musica nel nostro paese oppure la difficoltà che ha il reggae ad attecchire qui da noi?
Per la mentalità italiana. Nella musica che c’era in Italia nei primi anni ’90 c’era tantissima scelta, cosa che invece non accade oggi. Tutte le varie indies, le sonorità chiamiamole “di resistenza” sono quasi totalmente svanite; ora c’è solo la musica leggera, il pop, il rap, quindi io in Italia mi sono sentito un po’ stretto e ho dovuto allontanarmi per avvicinarmi a quello che sentivo più mio. Naturalmente poi dietro c’è anche la scelta di conoscere la Jamaica, dovevo studiare e andare alle origini del genere che più mi rappresenta, ovvero il reggae. E soprattutto l’idea che mi ha guidato sempre è stata: vado in Jamaica ad imparare, non a diventare qualcuno.
Un disco pienamente immerso nel reggae giamaicano con gli occhi ben aperti, però, anche sul clima politico-sociale europeo…
Sì, perché ormai un po’ ovunque c’è questa tendenza al capitalismo, al razzismo. Alcuni testi del mio disco hanno proprio un forte valore politico e una valenza, ahimè, internazionale. Come si dice? Tutto il mondo è paese.
Nel disco è presente anche un omaggio ai Metallica con
la cover della spettacolare “The Unforgiven”
Prendendo in prestito il titolo di un brano del disco che è “Mission”, qual è la missione della tua musica?
Un disco deve essere sempre un bel libro, un bel film, che ti lascia qualcosa. Quando produco, costruisco, creo, penso sempre che il prodotto che ne uscirà fuori deve essere come una fotografia che porti sempre con te, deve avere importanza e significato per chi ascolta quel disco o quel brano. La mia missione, quindi, è principalmente questa: lasciare un segno.
Com’è stato collaborare con gli Wailers, la storica band di Bob Marley?
Sono partito dall’avere i poster di Bob Marley in camera a fare un disco con la sua band; è un traguardo importantissimo, innanzitutto dal punto di vista personale. Dietro agli Wailers ci sono delle storie travagliate, dopo la morte di Bob ci sono state delle incomprensioni tra i vari componenti ed altri problemi e rimetterli insieme per fare questo disco è stata un’operazione grossa. L’ultimo disco lo avevano fatto nel 1986 con Alpha Blondy, quindi è stata una vera e propria reunion. Naturalmente non ho mai pensato di voler scimmiottare Marley, nel disco si sentono gli Wailers, ma si deve sentire anche Alborosie.
Girando per il web ho letto cose fantastiche a proposito del tuo studio di registrazione giamaicano, si parla di un vero e proprio tempio…
Innanzitutto, il mio studio è a casa mia. Posso entrare in studio in pantofole e accappatoio e questa è già un lusso perché non mi dà mai la sensazione di dover salire in macchina e “andare a lavorare”. Da quando sono nati i miei figli è diventata anche un po’ un problema questa cosa perché ci sono “invasioni” continue e spesso le loro voci vanno a finire anche sulle incisioni (ride, n.d.r.). Tornando allo studio, ho tre sale (una di ripresa e due di regia), che sono colme della storia della registrazione. Possiedo tutti i classici della registrazione mondiale: i vari outboard, compressori, equalizzatori, un bellissimo mixer Helios della Highland Records usato da Bob Marley, un altro mixer MPC, riverberi, echoes, molti strumenti. È un tempio, forse, ma sempre modesto: il disordine e i mille cavi in giro non mancano mai.
Tornando in Italia, un tema molto caro al reggae è da sempre la marijuana e la sua legalizzazione… immagino tu conosca bene la posizione dell’Italia sul tema. Che ne pensi?
Il problema che si ha in Italia è che siamo vecchi. A comandare sono i vecchi e anche i giovani sono un po’ vecchi dentro. Quando si è vecchi, per forza di cose, la mentalità è ancora legata a certe catene mentali antiquate e finché il pensiero sarà questo, non cambierà mai nulla. È una questione di come sono settate le menti. Serve energia per la rivoluzione, bisogna trovarla. Secondo me ci aspettano ancora quattro cinque anni di gavetta.