Ho un carattere molto particolare: sono sereno solo quando ho la testa impegnata.
Il mio più grande interesse è la musica e nel mio percorso professionale ho sempre cercato di trattare di buona musica, che sia per iscritto o parlando davanti al microfono di una radio. Adoro i grandi cantautori e i loro testi e, forse proprio perché sono cresciuto dando grande attenzione ai versi dei brani ascoltati, nel tempo libero mi diletto nella scrittura; mi piace ragionare con le parole e, soprattutto, comunicare, che sia un'emozione o un semplice spunto per un confronto.
È un biglietto da visita più che ben accetto quello degli Elephants in the Room, all’anagrafe Daniele Todini, Emanuele Stellato ed Eric Borrelli,. La loro “Done” è un bel brano dal respiro internazionale frutto di una ricerca e di una sperimentazione portata avanti fin dai tempi dell’adolescenza suonando ogni genere di musica in quel di Roma Nord e non solo, e arrivata a un buon livello di maturazione grazie all’incontro artistico con i ragazzi di MZK lab. Nel giorno d’uscita del loro singolo, ho deciso di scambiare quattro chiacchiere con loro per conoscerli meglio.
Ciao ragazzi, partiamo da “Done”, il vostro singolo, cosa racconta e come è nato?
Ciao! “Done” racconta, principalmente, un disagio interiore basato sulla monotonia di una vita noiosamente normale. Il protagonista si ritrova solo con i suoi pensieri e si rende conto di aver perso il controllo solo quando arriva a chiedersi “che cosa ho fatto”. Da qui il titolo infatti. Il pezzo nasce dall’idea del ritornello con una semplice linea vocale ed una chitarra acustica, adattato poi alla realtà del nostro trio. Solo successivamente è iniziata la collaborazione con i ragazzi di MZK Lab. A quel punto avevamo tutti i tasselli che avrebbero delineato il sound che potete ascoltare oggi!
Come nascono gli Elephants in the Room, invece?
Ci conosciamo da quando abbiamo imbracciato gli strumenti per la prima volta, e dopo aver fatto varie esperienze musicali (insieme e non) abbiamo deciso di iniziare questo percorso. Non c’era un’idea precisa sul cosa saremmo andati a fare, c’era tanta voglia di suonare e scrivere belle canzoni, o almeno che rispecchiassero il nostro concetto di “bello”.
ph. Credit: Jacopo Mancini
Provenite tutti quanti da un percorso musicale assai variegato (insieme e non), come avete fatto a trovare la quadra per raggiungere il sound degli Elephants in the Room?
Il segreto è proprio quello! Siamo riusciti a mettere una parte di ciascuno di noi, e del nostro background, nel sound. È stato un processo naturale e senza decisioni prese prima di iniziare. Insomma, abbiamo voluto vedere dove andavamo a finire suonando liberamente.
Quanto conta per voi sperimentare e quanto, invece, vi lasciate influenzare dalla musica che ascoltate?
Sono entrambe facce di un’unica medaglia. Cerchiamo costantemente di assimilare più possibile da quello che ci piace ma allo stesso tempo siamo pronti a metterlo in discussione o, perché no, a stravolgerlo.
Dietro a questa prima produzione ufficiale ci sono i ragazzi della MZK lab, in cosa avete sentito maggiormente il loro aiuto?
Lavorando con loro ci si è aperto un mondo, abbiamo trovato il tassello mancante, l’orecchio esterno che analizza la piega che il brano sta prendendo. “Done” è stato il brano perfetto per capire le potenzialità di questa collaborazione!
ph. Credit: Jacopo Mancini
Nel brano raccontate l’alienazione del vivere quotidiano, la fatica che si prova anche solo nell’uscire dalla propria stanza per affrontare una nuova giornata. Una sensazione che porta alla solitudine e dunque alla follia. C’è un qualcosa di autobiografico nel brano? Quale consiglio dareste al protagonista di “Done” per tornare a respirare?
(Risponde Eric Borrelli) Diciamo di si, è stato un pò il riflesso di un periodo della mia vita abbastanza monotono e senza stimoli che mi interessassero veramente. Alla ricerca della mia strada ho voluto, anche enfatizzando alcune emozioni, descrivere il mio stato d’animo. Un consiglio da dare al protagonista sarebbe stato quello di abbandonare quella monotonia per riuscire a concentrarsi sui suoi sogni e le sue passioni… ed è proprio quello che sta facendo ora!
Vi siete mai sentiti attratti dalla scrittura in italiano?
Certamente! All’inizio non l’avevamo nemmeno preso in considerazione, ma con il passare del tempo non nascondiamo che qualche esperimento è stato fatto. Speriamo di potervi far ascoltare qualcosa in futuro!
Per concludere, oltre al classico cenno ai progetti futuri, voglio che sogniate un po’ perché mi piacerebbe sapere come dovrebbe essere il concerto ideale della vostra band…
Tasto dolente! Dolente perché, vista la situazione che il mondo sta vivendo, speriamo di avere quanto prima la possibilità di tornare su palchi più o meno grandi. Ci aspetta tanto lavoro da fare per allestire un live che sia all’altezza delle produzioni… E non vediamo l’ora!
Ascolta “Done” degli Elephants in the Room su SPOTIFY
La 16Gang è composta da Pasquale Bello in arte “Skelotto” e Antonio Santarcangelo in arte “Weegly”, e di recente dal produttore, anche lui giovanissimo, ROX. I ragazzi del collettivo, scoperti da Angelo Calculli di Mk3 e da Giuliano Saglia di Red Music,hanno le idee ben chiare in testa e ora che hanno da poco firmato con la Elektra Records, del direttore artistico Achille Lauro, sono pronti a “spaccare” con il loro flow senza filtri. “SnitchDance”, il loro ultimo singolo sta spopolando ovunque, specie tra più giovani; a riconferma dello stretto legame tra questi ultimi e la trap.
Ciao ragazzi, parlatemi di come nasce “SnitchDance”. È il vostro biglietto da visita?
Ciao! Il brano “SnitchDance” è frutto della sperimentazione di diversi sound da parte del nostro producer Rox ed è arrivato nel momento giusto, in quanto si inserisce perfettamente nell’ondata di successo della trap dance. Quando Rox ci ha presentato per la prima volta il beat dal quale è nata poi “SnitchDance”, non lo abbiamo subito apprezzato per via del sound davvero nuovo per noi. Successivamente, lavorandoci tutti insieme siamo riusciti a ricavarne una traccia perfetta. Più l’ascoltavamo, più iniziavamo a intuire che questo sound, così all’avanguardia, avrebbe potuto funzionare. “SnitchDance” non è ancora il nostro biglietto da visita: come detto, ha un sound totalmente nuovo, molto distante rispetto ai nostri brani precedenti. Trattandosi di una novità, siamo certi che i nostri ascoltatori non riusciranno facilmente a prevedere la nostra prossima mossa (sorridono, n.d.r.).
La vostra gang, la vostra traphouse sembra quasi un Fight Club, con le stesse regole d’onore per farne parte. Me ne parlate un po’ (per quello che potete…)? Come nasce, cosa significa per voi, quali sono i requisiti per avvicinarsi alla gang…
La prima regola della traphouse è non parlare della traphouse (ride). Noi veniamo da una zona dove le persone sulle quali puoi davvero contare e di cui puoi fidarti sono poche. Siamo cresciuti con una cerchia ristretta di amici e ancora oggi sono gli stessi. Nella traphouse entra solo chi fa parte della squadra; è il nostro luogo di culto (e studio di registrazione), dove nasce la nostra musica (dalla scrittura all’incisione), dove siamo liberi di esprimere la nostra arte e creatività. Per poter entrare, il requisito fondamentale è far parte della squad, e, attualmente, la squad non ha bisogno di nuovi personaggi.
Da film a film, il video di “SnitchDance” è ispirato a Pulp Fiction e in particolare all’episodio con la “ventiquattrore misteriosa”, che è diventato iconico nella storia del cinema e non solo. Come mai questo rimando e qual è il collegamento che avevate in mente con la vostra musica?
Il video di “SnitchDance” ha preso spunto da capolavori della storia del cinema, come “Pulp Fiction” e non solo. Infatti, nel video troviamo chiari riferimenti anche ai film “Paura e delirio a Las Vegas”, “Scarface” e “Prova a prendermi”. Il rimando all’episodio di “Pulp Fiction” con la “ventiquattrore misteriosa” è frutto della creatività del videomaker Davide Masciandaro, che ha curato concept creativo e realizzazione del video. Nello specifico, la valigetta è il motore del video, l’elemento che crea la narrazione e la porta avanti, collega le varie scene e contribuisce a creare suspance e un alone di mistero nello spettatore, che viene quindi invogliato a proseguire la visione. La ventiquattrore nel film “Pulp Fiction” ha una potenza enorme, è il motore fittizio della trama del film, in quanto dimostra la forza del linguaggio cinematografico, che può mostrarci determinate cose, ma può anche decidere di nascondercele, facendo lavorare la nostra immaginazione. La nostra musica contiene elementi che lasciano libera interpretazione all’ascoltatore, pensa in “SnitchDance” al discorso creato attorno alla traphouse, di cui ti abbiamo appena parlato. Quindi, disseminiamo nella nostra musica e nella nostra comunicazione tanti elementi (la traphouse, la gang…) che hanno potenza comunicativa equivalente alla valigetta misteriosa di “Pulp Fiction”.
L’essenza dell’artista trap passa anche dalla moda; quant’è importante per voi il vostro vestire? Rappresenta una sorta di marchio di appartenenza?
Nella trap, molto più che nel rap l’immagine ha acquistato un valore immenso. Quando parliamo di potenza dell’immagine, intendiamo soprattutto la moda, intesa come il modo di vestire e di indossare determinati marchi importanti. Noi siamo sempre stati appassionati di marche, vestiti e quant’altro e la trap è proprio il mondo ideale dove poter sfoggiare il nostro outfit. Senza dubbio è la musica che parla, sempre e comunque, ma la moda e gli outfit sono parte della nostra comunicazione quindi più che marchio di appartenenza, sono il nostro marchio. Ci piace avere uno stile tutto nostro ed essere riconoscibili per questo.
Siete nel team di Elektra Records, sotto la direzione artistica di un’artista come Achille Lauro, tra i protagonisti di una vera e propria rivoluzione moderna nella nostra musica, rivoluzione che ha dato più spazio anche al vostro genere musicale. Bella responsabilità?
Assolutamente, enorme responsabilità! Siamo contentissimi e molto orgogliosi della chiamata ricevuta da Elektra Records. Crediamo davvero in quello che facciamo, dal primo giorno. Per noi, non si tratta solo di fare musica trap, bensì di avere un determinato stile di vita. Non potevamo chiedere di meglio che avere Achille Lauro come direttore artistico: l’artista più rivoluzionario degli ultimi anni, che ha cambiato in molti il pensiero e il modo di vedere questo tipo di Musica. Ed è riuscito a portarla a livelli mai raggiunti prima. A lui, sentiamo di dovere tanto.
Il beat del pezzo spopolerà su Tik Tok, che rapporto avete coi social?
Prima del lancio di “SnitchDance” non avevamo mai usato Tik Tok, ma usavamo molto Instagram, sia i nostri profili personali, sia il profilo 16gang, per raccontare la nostra musica e la nostra quotidianità (ci piace mostrare ai nostri follower la nostra vita fuori dallo studio di registrazione). Poi abbiamo capito il potenziale della piattaforma, anche per dialogare con un pubblico giovanissimo, quindi siamo approdati anche su Tik Tok. Siamo davvero felici che il sound di “SnitchDance” stia spopolando su Tik Tok, è un successo inaspettato. Guardiamo i video dei vari creators, che ci divertono molto, e ci teniamo a condividerli sul nostro account Instagram per avere un dialogo diretto coi nostri fan. Quindi ragazzi, seguite 16gang su Tik Tok e continuate a usare il sound di “SnitchDance” nei vostri video.
Progetti futuri: singoli, disco…?
Stiamo sempre nella traphouse, al lavoro, alla ricerca di nuovi sound, alla sperimentazione continua. Potremmo riempirvi le casse di musica per un giorno intero da quanto produciamo, ma la prossima mossa ve la facciamo solo immaginare (ridono, n.d.r.). Un bacio a tutti i lettori di Musica Zero Km!
Dopo tanta gavetta (televisiva e non) e la riscoperta del proprio essere artista attraverso una svolta stilistica emotiva e personale, Deborah Iurato è tornata con il singolo “Ma cosa vuoi?”. Grazie a questo brano la cantautrice di Ragusa ha scoperto il gusto di “perdersi per ritrovarsi”, di “non cercare a tutti i costi di liberarsi dal peso delle cose quando invece basterebbe solo seguire il ritmo giusto per vibrare”. Proprio qualche giorno fa ho scambiato quattro chiacchiare con Deborah…
Ciao Deborah, innanzitutto, come nasce “Ma cosa vuoi?” e cosa significa questa nuova uscita per te?
Ciao! “Ma cosa vuoi?“ nasce in un momento particolare per tutti noi. Durante il lockdown ho iniziato a scrivere le mie canzoni e ho avuto modo di focalizzarmi a pieno sul mio progetto cantautorale: raccontando e raccontandomi con semplicità. Nel nuovo singolo parlo del conflitto tra uomo e donna, un vero e proprio tira e molla in cui anche chi ascolta si può rispecchiare. Mi piace pensare che nonostante i conflitti quotidiani quando si è davanti ad un vero sentimento tutto si superi.
C’è una nuova Deborah desiderosa di voltare pagina ora?
Era giunto il momento di una svolta stilistica, ne sentivo il bisogno e questo nuovo lavoro nasce in un momento molto particolare. In questo lungo periodo ho cercato e ricercato me stessa, provavo a scrivere qualcosa che mi appartenesse e sentivo il bisogno di trovare la mia dimensione dimenticandomi di tutto il resto.
Ti è mai capitato di sentire così tanto la pressione da parte di un qualsiasi ente esterno da arrivare a dire davvero “Ma cosa vuoi?” per affermare la tua libertà artistica?
A volte sì! Oggi scrivendo ho trovato serenità, ho cercato di seguire le mie emozioni durante la scrittura, e non c’è mai un momento specifico in cui “decido” di scrivere una canzone; ogni pezzo è frutto di un insieme di pensieri che racchiudono periodi della mia vita.
Il sound di questo brano è molto radiofonico; hai dovuto trattenere un po’ la tua potenza vocale per adattarti al pezzo o sbaglio? Nel caso, sarebbe un segno di grande versatilità…
Sto sperimentando molto su me stessa e sul sound dei pezzi. Questo nuovo progetto è nato per caso, e non per l’esigenza specifica di rispondere al mood del mercato musicale attuale. Sto acquisendo una maggiore consapevolezza di me stessa come donna, e di conseguenza del mio essere artista, e vorrei che questo arrivasse al pubblico nella maniera più spontanea.
In parte del tuo cammino artistico ha avuto molta importanza la TV; in cosa pensi ti abbia fatto crescere maggiormente l’occhio della telecamera?
Sicuramente mi ha fatto crescere e prendere coscienza della donna che sono. Mi ha insegnato ad essere sempre me stessa.
Hai una fanbase davvero molto nutrita; sei riuscita a mantenere un contatto con la tua “gente” anche durante questo periodo di lockdown e se sì come?
Assolutamente sì! Amo follemente le persone che mi seguono e vedere i loro sorrisi mi riempie sempre il cuore di gioia. Fortunatamente oggi abbiamo strumenti come i social network che ci permettono di stare vicini anche se lontani. Instagram durante il lockdown è stato il miglior mezzo di comunicazione che ci ha permesso di non sentirci soli.
Capitolo progetti futuri: immagino che il ritorno al live sia la cosa che aspetti con più trepidazione, oltre a questo, ci sono nuovi singoli o un album a bollire in pentola?
Spero presto di tornare su un palco e cantare… Quello che sono adesso lo devo al mio impegno e alla carica che mi danno tutte le persone che mi seguono, spero che questo in futuro non cambi mai. Sto lavorando molto al mio nuovo progetto e tutto sta nascendo pian piano come fosse un puzzle. Sto cercando di raccontare con semplicità tutto ciò che vivo quotidianamente facendo sì che vengano fuori tutte le sfaccettature del mio essere.
“Prima che con le parole, ognuno di noi stabilisce con gli altri un legame comunicativo basato sulle energie”. Riprendo queste parole dal testo dell’intervista per presentarvi il progetto di ELLYNORA, al secolo Eleonora Sorrentino Paravia. La sua musica ha l’obiettivo di comunicare in qualsivoglia forma artistica ed è per questo che la cantautrice romana ama trasmettere messaggi attraverso le immagini quanto farlo attraverso la musica. Il suo sogno è dar vita concerti che siano esperienze immersive, la sua musica risente di varie influenze, da Napoli fino a Los Angeles, ma intende affermarsi senza etichette e con il criterio assoluto dell’originalità.
Questo il resoconto della chiacchierata agostana tra me e Eleonora dopo l’uscita del suo sentitissimo singolo “Niña Blanca”:
Ciao Eleonora, come nasce “Niña Blanca” e com’è stato presentarlo al pubblico?
Ciao! “Niña Blanca” parla di una vicenda in parte autobiografica raccontata sotto forma di leggenda. Per anni ho provato a scrivere un brano su questo evento della mia vita, un lutto che mi ha segnato e mi ha fatta diventare quella che sono con le mie esperienze all’estero, con il bagaglio delle mie scelte, con la mia personalità e la mia verità. Dato che tramite questa canzone voglio mantenere in vita il ricordo di una persona, è stato davvero difficile trovare le parole giuste per farlo, fino a che non mi è venuta in mente la storia, inventata da me, di questa sirena che da uno scoglio guarda una coppia di amanti e che così, dopo aver perso il suo compagno, ritorna a capire il senso dell’amore. A questo punto inizia a invocare la Niña Blanca, ovvero la Santa Muerte messicana, affidandole il suo amato per proteggerlo. Mi ha sempre colpito questa idea benevole della morte che hanno nell’America Latina, non so se hai visto il film Disney “Coco”, beh, lì è spiegato benissimo.
Ora che il dolore è emerso, c’è stato un flusso di coscienza che ha dato vita ad altri pezzi, magari terapeutici, per te?
Questo pezzo, in realtà, è nato circa un anno fa anche se ho preferito aspettare prima di pubblicarlo; ho avuto davvero bisogno di metabolizzarlo prima dell’uscita. Tra la fine stesura di questo pezzo e l’uscita ho scritto altro, naturalmente, e anche in lockdown, nonostante un blocco iniziale, ho scritto qualcosina. In quel periodo, mi è mancato però il vivere la quotidianità che è ciò che mi ispira più di tutto. Poi, lo sai forse meglio di me, più cerchi di scrivere qualcosa e più non ci riesci.
ph. Federico Rinaldi
Rimanendo sul brano, abbiamo parlato di questa sirena che, dopo momenti di smarrimento, riesce a ritrovarsi pregando la Santa Muerte. Qual è il tuo rapporto con il trascendente, con la spiritualità?
Credo molto nelle energie che risiedono in ognuno di noi e che mettiamo in circolo sul pianeta con le nostre azioni, le nostre emozioni. Tenendo ben a mente questo, cerco sempre di trovare in me stessa quella positività da trasmettere a chi mi sta accanto: prima che con le parole, ognuno di noi stabilisce con gli altri un legame comunicativo basato sulle energie.
Si intravede chiaramente che sei una donna molto forte…
Ti ringrazio, non bisogna essere dei supereroi, ma è necessario saper valorizzare ogni aspetto delle nostre emozioni. Anche le fragilità sono parte della nostra forza.
Nemmeno i videoclip dei tuoi brani sono mai lasciati al caso. Presti una grande attenzione alle immagini…
Considero l’esprimermi attraverso le immagini al pari del farlo attraverso la musica. Il racconto delle immagini è molto diretto, spesso sopperisce addirittura a ciò che le parole non riescono a comunicare. Quando scrivo le mie canzoni ho sempre ben chiare quali forme, quali colori voglio arrivino alle persone. Per questo, la regia e la sceneggiatura dei miei videoclip le curo io insieme all’aiuto essenziale di Federico Rinaldi. Scendendo nel dettaglio, poi, come puoi notare dai video, prediligo sempre delle tinte vintage, con quelle pellicole che saranno per sempre immortali. Adoro riprendere il passato e raccontarlo nuovamente in chiave personale e moderna.
Sogniamo per un attimo il ritorno al live. Hai mai pensato ad una dimensione teatrale per la tua musica, quello che mi racconti ha un forte potenziale teatrale…
Ho sempre sognato di realizzare concerti che fossero delle esperienze artistiche a tutto tondo. Anche per questo sono andata a studiare negli Stati Uniti. Ovviamente bisogna fare un passo in più per realizzare tutto questo, ma se dobbiamo sognare, facciamolo per bene. Vorrei che i miei concerti fossero un racconto coreografato, con delle immagini proiettate e delle luci che illuminano e cambiano d’intensità a seconda dell’andamento della narrazione. Riprendendo il discorso di prima, un concerto di ELLYNORA deve essere il risultato di un mix di energie che dà vita a un’esperienza artistica immersiva.
ph. Andriana Tuesday
Torniamo alla musica in senso stretto. Nei tuoi brani c’è elettronica e melodia, suoni latini e testi da cantautrice; quanto ha influito la tua esperienza americana sul tuo modo di far musica?
Sono andata in America appena finito il liceo; portavo con me le canzoni con le quali sono cresciuta, tra cui molta musica napoletana visto che i miei genitori sono partenopei. Qui ti spieghi la melodia, ma anche l’uso dello spagnolo che è molto simile come sonorità al napoletano. A questo, per arrivare ad oggi, devi aggiungere i miei studi americani di canto e ballo e, in generale, tutto ciò che ho imparato vivendo da sola. Oggi posso dire che la mia musica sono pienamente io.
Quanto è stata complessa questa operazione e soprattutto è stato mai difficile mantenere questa libertà di esprimerti?
Ti dico che in molti mi hanno detto di non sapere dove collocarmi in termine di genere musicale. Beh, questa per me è una grande vittoria. Dovremmo essere tutti ben distinti gli uni dagli altri per non farci etichettare. Per questo motivo non ho mai sentito il “peso” della mia libertà, ho sempre voluto essere libera da targhette così da essere originale, unica. L’obiettivo primario è sempre stato quello di affermarmi col mio modo di fare musica, senza ispirarmi a nessuno. Insomma, sono ELLYNORA e questa è la mia musica, il mio biglietto da visita.
Dapprima indie e basta, poi indie pop e sul finire ITPOP prima di essere assimilato al pop a tutti gli effetti. Lo abbiamo chiamato in tutti i modi questo “genere musicale” che negli ultimi anni ha riempito le nostre playlist e le nostre orecchie.
Questa tendenza musicale ha vissuto una parabola ascendente tale da far dibattere molto: si son aperti talk sull’indie, improvvisati dibattiti e, addirittura, scritti diversi libri. Ora però che succede? siamo giunti al “canto del cigno”? È notizia di poche ora fa lo scioglimento dei Canova, band milanese di casa MACISTE DISCHI; la notizia ha fatto di certo molto rumore, come accaduto nemmeno un anno fa con l’allontamento dai thegiornalisti e il conseguente esordio da solista di Tommaso Paradiso. Non parliamo poi della separazione professionale tra Carl Brave e Franco126, notizia che è passata forse più in sordina perché mai ufficialmente annunciata con post et similia, ma che ha portato dispiacere a non pochi ascoltatori. Insomma, tanti indizi fanno una prova, l’indie nostrano, per come avevamo imparato a conoscerlo negli ultimi anni, dunque nella sua accezione più pop e mainstream, sembra proprio agli sgoccioli.
Qualcuno naturalmente resiste (o ci lascia con la speranza che sia così): son certo che Calcutta viva da eremita in qualche campagna e stia preparando un ritorno in grande stile, Gazzelle ha rispolverato dal nostro armadio dei ricordi gli Zero Assoluto e ci ha cantato in un singolo nemmeno malaccio, COEZ è vivo, ogni tanto caccia fuori un feat. in cui la sua presenza è forte, poi torna sotto la sabbia, forse a lavorare a un nuovo progetto, altri come Motta o Brunori SAS – tanto per citarne due, ma di esempi da fare ce ne sarebbero un po’ – non hanno mai del tutto virato verso il mainstream – e per questo ho titubato prima di inserirli qui – conservando il loro alone di mistero e, forse proprio grazie a questa scelta, si son salvati dalla maledizione dell’ITPOP. Per i sopracitati il mondo non è mica finito, sia ben inteso, si è aperta forse una nuova pagina di vita, si è compiuta una scelta definitiva tra mainstream e mondo indipendente abbandonando quello che probabilmente era diventato un limbo troppo stretto e nel quale per varie esigenze – comprese quelle artistiche naturalmente, ma non solo – era impossibile rimanere.
Vasco Brondi, il quale anche lui già nel 2018 ha chiuso il percorso artistico de Le Luci della Centrale Elettrica per “ripartire in altre direzioni” (parole sue), ha pubblicato un libro praticamente undici anni fa, “Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero”, del quale, tralasciano il contenuto non in tema, mi piace prendere in prestito proprio il titolo per poi parafrasarlo così: “Cosa racconteremo di questo cazzo di indie”. Non voglio nemmeno togliere la parolaccia perché dà più enfasi a quello che è stato un fenomeno del quale probabilmente avremo da parlare ancora a lungo. Toccherà capire se a posteriori o dopo una nuova rinascita.
P.S. Tutto ebbe inizio, probabilmente, da Calcutta, ergo finché c’è Calcutta c’è speranza.
MILLE, al secolo Elisa Pucci, cantautrice romana, ma milanese d’adozione, è un’artista a tutto tondo. Con il suo secondo singolo da solista intitolato “La vita, le cose”, vuole ribadire l’importanza, e la bellezza, delle piccole cose, riscoperte ancor di più durante questo periodo di lentezza forzata impostoci dal lockdown. Il suo elisir di felicità ha come ingredienti principali la semplice quotidianità e i colori…
Ciao Elisa, come hai passato questo recente periodo a Milano?
Nella mia routine non è cambiato molto, visto che io vivo tantissimo in casa perché lì penso, dipingo e scrivo e vado in studio solo per registrare. Devo dire che ho rivalutato molto questo periodo di quarantena perché mi sono un po’allenata alla lentezza; avevo preso già diversi impegni da tempo e quindi la sorpresa di ritrovare poi tutti i piani scombinati alla fine l’ho anche accolta di buon grado. Bisogna prendere le cose come vengono e pazienza se poi avevamo programmato tutt’altro. Quindi si, ho passato questi due mesi chiusa in casa come tutti e il rientro alla normalità mi ha fatto percepire per prime le gambe, che mi sembrava quasi di aver perso: la mia casa è molto accogliente, ma piccolina, avevo completamente dimenticato cosa significasse camminare o scendere le scale, quindi diciamo che il mio lockdown si è concluso con la riscoperta del corpo.
Diciamo che si è concluso con la riscoperta di quelle piccole cose di cui parli anche nel tuo singolo “La vita le cose”. Ho letto, poi, che con questo pezzo vuoi dare una risposta alla famosa domanda che poniamo sempre, spesso anche come semplice frase di circostanza, ovvero “Come stai?”…
Sì, per me sono sempre i piccoli dettagli che fanno la differenza e sono veramente tanto, tanto affezionata anche a quei piccoli riti quotidiani. Per me è una cosa grandiosa anche andare a fare la spesa con la mia dolce metà; perché se per gli altri è una rottura di palle fare la fila, fare i conti con gli altri carrelli… per me acquisisce sempre un valore immenso. Così ogni cosa che mi succede nella vita cerco di godermela, anche il gesto banale di fare la spesa, appunto, o di prendere un caffè. Il chiedere “come stai?” fa parte di queste routine perché poi magari lo sai già come sta l’altro, perché ci vivi insieme o intuisci più o meno la “temperatura” dell’altra persona, però è sempre un gesto che apprezzo. Cerco di guardare le cose con occhi sempre diversi e quindi mi sento molto più ricca di quello che poi in realtà sono.
Sulla spalla hai tatuato un ritratto di Frida Kahlo; a lei spesso davano della surrealista, al che rispondeva sempre prontamente “Io interpreto o disegno solo la realtà”. Ho trovato un grosso parallelismo tra le vostre personalità, non solo su questo, ma anche con le cover dei tuoi singoli: il fatto che tu abbia disegnato su queste una specie di autoritratto, si specchia negli autoritratti della Kahlo dopo il suo incidente…
Beh, sicuramente nutro un amore sconfinato per Frida Kahlo, per la sua forza, per l’amore con Diego Rivera, per la sua vita in genarle… Ecco perché poi me la sono tatuata sul braccio. I suoi occhi sulla realtà sono per me un esempio, perché lei poteva benissimo maledire ogni cosa da cui era circondata, sì, malediva comunque il mondo, l’incidente, ecc., ma ne sapeva accogliere la bellezza anche nelle tragedie e questo mi ha sempre molto colpita. Sicuramente quel mood è un po’ anche il mio modo di vedere le cose e, per quanto riguarda le copertine dei singoli, l’aver disegnato una ragazza con i capelli rossi come me, probabilmente è solo un caso, perché poi quei disgni fanno parte di una serie che si chiama “Tette Sulle Spalle” e in realtà gli elementi che compongono i disegni sono simili in tutte le cover, ma anche molto diversi. Come per la musica, anche quando dipingo, non ho ben chiaro quello che voglio disegnare, sicuramente ho sempre a cuore il mettere su quel foglio tutto quello che mi sembra necessario nella mia vita.
Certo, è come un flusso di coscienza, ti fai guidare da quello e basta, nessun retropensiero, nessun ragionamento lungo…
Sì, assolutamente. Anche quando scrivo una canzone,in realtà, non lo so di cosa voglio parlare o scrivere, cioè per me è importante ciò che avviene, il movimento, quando mi alzo e mi siedo davanti al pianoforte e inizio a suonare, è questo che mi preme, anche perché con la canzone io decodifico le cose che mi accadono.
Prima abbiamo parlato un po’ dei colori. Questi sono molto presenti nella tua vita, anche tra le tue foto è difficile trovare un bianco e un nero. Mi chiedevo da cosa derivasse, se c’è un legame un po’ con quello che mi hai raccontato fino ad adesso, cioè sull’apprezzare le piccole cose e quindi vedere sempre un po’ tutto a colori…
Tutto sempre a colori. Sono estremamente legata ai colori, sarà anche un po’ per contrapposizione con il colore nero, la lentezza del colore nero, che corrisponde spesso alle cose brutte. Io intendo distaccarmi da quella cosa lì. Mi è sempre piaciuto vestirmi colorata, un po’ anche grazie alla mia mamma, perché ho questa immagine di lei con i capelli lunghi, rossi, ondulati, vestita sempre colorata, con le gonne a vita alta che mi riporta a un concetto di delicatezza, benessere, felicità… Quella per me è sempre stata un’immagine sacra a cui ho voluto sempre attingere per sentirmi meglio.
E a proposito di stare bene, com’è stato uscire dalla “comfort zone” dello scrivere in inglese per passare all’italiano?
Finito il tour con i Moseek, avevo tempo per poter fare anche cose che non avevo mai fatto. Sicuramente, come per ogni cosa nuova, c’è il timore di sbagliare o di fare un cosa che non ti piace ed è oggettivamente brutta, ma soprattutto di fare qualche cosa che non mi rappresentasse, e invece quando poi ci ho preso gusto, ho assolutamente percepito che era totalmente una cosa che mi stava rappresentando; paradossalmente era una nuova scoperta, una nuova dimensione perché quando scrivevo in inglese per i Moseek ero molto legata ad un approccio estetico, se vogliamo anche molto ludico, ma non andavo ad addentrarmi in cose assolutamente personali anche perché avevo bisogno di fare una media con i pensieri dei miei colleghi di band, mentre in italiano ho quasi sentito l’obbligo di mettermi nero su bianco totalmente. Quando ho fatto leggere a Dario e Fabio (gli altri componenti dei Moosek, n.d.r.) questi brani, abbiamo subito detto “Beh, queste canzoni devono far parte di un altro progetto” e così si è delineato il mio progetto solista che è qualcosa di parallelo alla band.
Prima mi hai parlato di Frida Kahlo, una donna eccezionale, perché spesso oggi, soprattutto per le donne, c’è il dovere di essere fuori dal comune per essere prese un po’ in considerazione anche nel mondo lavorativo. Ad esempio, leggevo in una tua intervista che, secondo te, è più facile oggi che ad un’anteprima di un film ci si accalchi più vicino all’attore uomo piuttosto che alla donna…
Si, io nello specifico ho parlato dello strapparsi i capelli, piangere. I fan sfegatati, quelli che piangono davanti al loro “idolo” per capirci. Sicuramente c’è bisogno anche per gli uomini di essere eccezionali, ma in generale, nella musica specialmente, per emergere bisogna essere eccezionali. Detto questo, c’è sicuramente una differenza anche di percezione del pubblico, è qualcosa di innato che abbiamo, fa parte della nostra abitudine, dei nostri usi e costumi; io sono cresciuta con la famiglia che mi ripeteva “Ma tu il principe azzurro che ti renderà felice non lo trovi?”. Il pensiero di dover trovare una seconda persona che ci renda felici è qualcosa di radicato nelle teste delle bambine perché siamo abituate a pensare che un principe azzurro ci salverà. Sicuramente non è una cosa che io condivido, ma nemmeno la condanno perché è un qualcosa che viene detto sempre con tanta innocenza e tanto amore da parte delle nonne, delle zie, delle mamme. Sicuramente le abitudini possono essere scardinate e il tempo lo può fare, perché stanno cambiando tante cose e sicuramente c’è bisogno di tanto impegno da parte sia degli uomini che delle donne per far notare appunto quelle piccole cose che però fanno la differenza, perché sono proprio le piccole battute, le piccole percezioni e considerazioni nei confronti di una donna che rendono grande la differenza di percezione rispetto ad un’artista, ma anche ad una lavoratrice.
Verissimo, ed è paradossale che ancor’oggi si debba parlare di queste “differenze”. Volevo chiudere chiedendoti qualcosa sul tuo futuro prossimo.
Non ti posso dire tantissimo. Sicuramente curerò la parte grafica, le copertine e tutto ciò che è disegnare qualcosa che riguarda il mio progetto. Posso dire che questa seconda canzone rappresenta un po’ un secondo capitolo di una storia che mi riguarda, la vivo come se fosse un album di fotografie, un libro, perché sono tutte cose vere, non faccio nomi e cognomi per ovvi motivi, però dentro le canzoni che scrivo c’è tutto quello che poi è accaduto realmente nella mia vita.
Quindi, azzardo un po’, magari il prossimo album sarà una sorta di raccolta di come quadri con la loro “spiegazione”, ovvero i brani.
Mmm… Vedrete, ma, più o meno, hai colto (ride, n.d.r.).
Giulia Penna, cantautrice e web performer romana, dopo un passato da artista di strada e una gavetta piena di kilometri percorsi e partecipazioni a diversi concorsi canori, ha trovato la sua dimensione ideale nel mondo della rete dove è seguitissima grazie alla sua genuinità e alla sua schiettezza. Il suo progetto musicale, concretizzatosi in un lavoro indipendente, ha ricevuto già diversi riconoscimenti dal pubblico e arriva oggi alla pagina di diario dedicata all’estate. Un’estate decisamente particolare durante la quale, scrivendo sul suo diario musicale, Giulia ha deciso di raccogliere i frutti di quel “Bacio a distanza”, questo il titolo del brano, che noi tutti abbiamo mandato, durante il lockdown, a chi poteva starci vicino soltanto col pensiero. Qualche mattina fa i kilometri che separano Roma, la nostra mamma comune, e Milano, la sede attuale di Giulia, sono stati cancellati da una piacevole chiacchierata telefonica:
Ciao Giulia! Per giocare un po’ col nome del tuo nuovo singolo, ti chiedo: come stai vivendo questo ritorno all’accorciamento parziale delle “distanze”?
Ciao Alessio! Bene dai, è stata dura e sarà sicuramente un’estate particolare, ma voglio viverla come una ripartenza, proprio come il mio singolo “Bacio a distanza”, che vuole raccontare la stagione calda cercando di dare un messaggio di rinascita. Secondo me, in questo periodo abbiamo imparato a dare più valore alle persone e alle relazioni e, con questo brano, canto che è giunto il momento di andarmi a “riprendere” tutti coloro che mi sono mancati perché l’estate, e la vita in generale, sono belle solo con loro.
È stato difficile concepire un pezzo fresco come “Bacio a distanza” in una situazione così critica o questo ha rappresentato una sorta di liberazione, di evasione per te?
Durante la quarantena è uscito anche un altro mio singolo, “Soli anche insieme”, che raccontava proprio un momento di solitudine, un momento buio. Non era nulla di premeditato, ma è successo e, in parte, ha anche rappresentato il mio stato d’animo iniziale. Non ti nascondo che nelle prime settimane di lockdown ero molto spaesata e impaurita per il futuro, tuttavia, nella mia vita ho imparato sempre che dai momenti bui posso sempre trovare la forza per far nascere delle cose belle e quindi bisogna sempre rialzarsi. Ce l’ho messa tutta, mi sono ricaricata e ho scritto “Bacio a distanza”.
Tutte le copertine dei tuoi ultimi singoli sono pensate come delle pagine di un diario…
Sì, il 2020 lo avevo immaginato come l’anno per raccontarmi nelle mie diverse sfaccettature, nelle mie tante e variegate esperienze. Naturalmente, ci saranno altre pagine di diario, non mi fermerò a causa di questi mesi che abbiamo trascorso, anzi, avrò tante nuove emozioni da raccontare. La musica è il diario dei miei giorni.
È sempre stato così viscerale il tuo rapporto con la musica, come la vivevi prima della notorietà?
Sì, la musica è sempre stato il carburante della mia vita. Sono stata artista di strada, ho partecipato a diversi concorsi come, ad esempio, il Festival di Castrocaro, e ora eccomi qui a capo del mio progetto musicale indipendente e con un occhio speciale per le collaborazioni sul web. Internet, devo e voglio riconoscerlo, mi ha dato veramente tante opportunità.
A proposito del web, oltre a sottolineare il potenziale che la rete in generale, e soprattutto i social, hanno, vorrei chiederti qualcosa sulla responsabilità che una star del web deve nutrire nei confronti del pubblico…
Assolutamente, è davvero importante fare attenzione a ciò che si comunica. Io ho sempre cercato di trasmettere messaggi positivi, di mostrarmi nella mia genuinità. Poi certo, siamo esseri umani, si sbaglia e si sbaglierà sempre, però cerco sempre di stare attenta e di fare il mio meglio. Ci sono ormai intere generazioni che stanno crescendo con la rete, è davvero essenziale per noi creatori di contenuti di qualsiasi natura responsabilizzarci.
Con il video ufficiale del singolo hai coinvolto tanti amici del mondo del web e del mondo dello spettacolo in generale. Dai loro contributi video a distanza, è nata poi la Challenge che hai sottoposto ai tuoi fan…
Esatto, avevo tanta voglia far ballare le persone. Sentivo, soprattutto in questo momento, la necessità che le persone, ascoltando il mio brano, si staccassero dalla realtà e iniziassero a muoversi. Per il video, poi, ringrazio tutti gli amici che mi hanno inviato i loro contributi filmando la loro quotidianità. Volevo una cosa che fosse il più naturale possibile; non avrebbe avuto senso fare un video su una barca o in spiaggia insieme a tante persone. Ho voluto essere vera fino in fondo e ho raccontato la mia quotidianità fondendola con quella dei miei amici.
A proposito di genuinità. Nei tuoi brani, soprattutto in quelli più intimi c’è tanta Roma, c’è il tuo accento che non hai mai nascosto, ci sono quei vocaboli che a noi romani risultano più familiari…
Sì, il romano è la mia lingua, rispecchia me stessa. È il mio marchio di fabbrica che non vorrò mai perdere. Scrivo e canto come parlo, fa parte del mio mostrarmi senza filtri. La mia romanità è la mia verità. Poi certo, ci sono pezzi che si prestano di più a questo e pezzi che si prestano meno, ma chi mi conosce, anche attraverso i social, sa che se non mi mostrassi in questo modo, se non conservassi il mio accento anche nel cantato, non sarei io.