Gli androidi sognano ancora pecore elettriche?
All’annuncio di un sequel di Blade Runner avevano reagito tutti con parecchia paura. Sulla scia degli innumerevoli prequel/sequel/remake/reboot che negli ultimi anni sono andati a scomodare diversi mostri sacri della filmografia mondiale, pochi dei quali in maniera convincente, anche questa pellicola sembrava destinata a perire miseramente sotto il peso del paragone con l’originale.
Ricordiamo infatti che quando si parla di Blade Runner non si fa riferimento solamente ad un film del 1982 che col passare degli anni ha assunto lo status di cult senza tempo, ma ad una pellicola che ha definito e plasmato un intero immaginario. Da Akira a Ghost in the Shell, ma anche il fumetto Nathan Never, Videodrome e Gattaca, tutta la fantascienza che segue Blade Runner pesca a piene mani proprio dall’estetica cyberpunk di questa pellicola diretta da un Ridley Scott ancora in stato di grazia, accompagnato dalla fotografia di Jordan Cronenweth e dalle scenografie di David L. Snyder. Contrapposizione tenebrosa alla fantascienza più ingenua ed edulcorata del passato e più in linea con quella “arrugginita” alla Star Wars (il primo capitolo era uscito nel 1977), veramente in pochi, inizialmente, si sarebbero aspettati l’impatto che questo film avrebbe avuto non solo sul suo genere, ma sull’intera storia del cinema. Dopotutto anche Blade Runner ha avuto una vita abbastanza travagliata: arrivato nelle sale lo stesso anno in cui moriva da senzatetto Philip K. Dick (autore del libro dal quale il film è tratto) e accolto inizialmente in maniera piuttosto fredda al botteghino, anche dopo il grande successo è stato rimaneggiato più e più volte dai produttori e dallo stesso Scott arrivando a un totale di sette (sì, SETTE) cut diversi. Nonostante ciò, a prescindere da quale versione si preferisca tra il Domestic Cut e il Final Cut, Blade Runner è rimasto inossidabile, una Bibbia per gli appassionati del vero cinema e un enorme pilastro dal punto di vista estetico, narrativo, onirico e addirittura politico.
È possibile allora rendere onore ad un film del genere? Creare una pellicola che possa porsi addirittura come seguito materiale e spirituale di uno dei film più influenti di tutti i tempi? Togliamoci subito il dente, è il momento di dirlo: sì, è possibile, e Blade Runner 2049 è un grandissimo film. A darci questa risposta e a raccogliere il pesante testimone, 35 anni dopo l’originale, è il regista canadese Denis Villeneuve, già conosciuto ai più per gli ottimi Prisoners, Enemy, Sicario e già apprezzato nel campo della fantascienza con il recente Arrival. Ebbene, la scelta coraggiosa ed efficace che il regista compie sin dalle primissime inquadrature è quella di voler omaggiare la pellicola dell’82 ma allo stesso tempo quella di volersene distaccare, andando ad ampliare e ad esplorare altri aspetti del mondo futuristico di Blade Runner. Si cerca di oltrepassare il concetto del “seguito”, ribadendo a gran voce la volontà di non essere un semplice replicante (hehe) dell’originale: i punti di contatto con il primo film ci sono, intendiamoci, e si trovano quasi sempre in quell’Harrison Ford che qui fa più che mai da filo conduttore tra il passato ed il presente, senza però essere il protagonista assoluto della pellicola.
Certo, basta vedere su schermo un paio di scritte giapponesi al neon, di cartelloni luminosi Atari e di Spinner che volano tra il fumo dei palazzi per dipingere sulla faccia di ogni appassionato di vecchia data un sorriso che va da un orecchio all’altro, ma questo nuovo film non sente il bisogno di abusarne facendo leva sulla nostalgia per risultare efficace. Blade Runner 2049 riesce infatti a riprendere l’estetica iconica che conosciamo bene senza allo stesso tempo sembrarne una riproposizione identica, affiancando anzi diversi spunti del film di Scott a rimandi che provengono da altri film di fantascienza più o meno moderni (su tutti, Lei di Spike Jonze). Anche il mondo del “futuro analogico” di Blade Runner, parallelamente al nostro, in effetti è andato avanti di 30 anni, e si vede.
Per quanto concerne la trama, il regista ha espressamente chiesto alla stampa di rivelare meno particolari possibili e così faremo, anche perché parlarne vuol dire muoversi in un vero e proprio campo minato. Quella che ci troviamo ad ammirare è comunque una storia semplice ma niente affatto scontata, che vede questa volta protagonista il cacciatore K (Ryan Gosling) alle prese con una nuova indagine che lo porterà a scavare sempre più a fondo in un segreto che potrebbe destabilizzare la società, mettendolo allo stesso tempo sulle tracce di un ex-blade runner ormai scomparso, Rick Deckard (Harrison Ford).
Accompagnato da un grande cast tra cui Robin Wright, Jared Leto, Mackenzie Davis e soprattutto la bellissima rivelazione Ana de Armas, a dominare è senza dubbio un Ryan Gosling enorme, che sa ancora una volta bucare lo schermo semplicemente con la sua presenza scenica dall’inizio alla fine della pellicola e che riesce a non farsi mettere in ombra nemmeno da Harrison Ford, anche se anch’egli nella migliore interpretazione degli ultimi anni (anni luce da quell’Han Solo svogliato che abbiamo visto, ahimé, nel seppur ottimo Episodio VII). I due si compensano alla perfezione creando una tacita complicità tra i due personaggi principali, che riescono inoltre a rendere visivamente molto bene l’idea di quella coesistenza di vecchio e di nuovo che questa pellicola, dopotutto, rappresenta.
Per quanto riguarda il comparto tecnico, c’è poco da dire: siamo davanti ad uno dei film migliori degli ultimi anni. Forse i 168 minuti di pellicola rendono la visione decisamente ostica ai novizi del genere e potevano essere tagliati qua e là, è vero, ma Villeneuve si dimostra una volta per tutte un grande regista che riesce a gestire con consapevolezza da una parte uno spettacolo sensoriale incredibile e dall’altra una narrazione precisa e inesorabile. Parliamoci chiaro, visivamente Blade Runner 2049 è un film perfetto, da pelle d’oca. Ogni singolo frame della pellicola è un quadro di una bellezza abbacinante e non c’è una sola immagine che non sia curata nei minimi dettagli: il merito va sicuramente alla mano registica di Villeneuve, ma il vero maestro del film è, in questo caso, Roger Deakins. Il direttore della fotografia compie un’impresa titanica, offrendo allo spettatore uno spettro cromatico vastissimo che parte da tinte fredde e colori desaturati, passa per gli ologrammi fluo dai colori brillanti e arriva fino agli arancioni più accesi di un deserto alla Mad Max-Fury Road: è una fotografia fatta tanto di colori e luci quanto di ombre più scure della pece, in una dicotomia che rispecchia molto bene lo spirito della pellicola.
A coronare il tutto è la maestosa colonna sonora: Hans Zimmer e Jóhan Jóhannsson uniscono i bassi potenti di suoni elettronici ad archi gravi per un risultato strabiliante, che nella seconda metà del film richiama a più riprese i temi storici di Vangelis. Obbligatoria quindi la visione al cinema, preferibilmente nella sala con lo schermo più grande e con il sistema audio più potente che riusciate a trovare.
Insomma era facile, facilissimo tirare fuori un seguito senza nulla da dire che sarebbe crollato sotto le troppe aspettative poste dall’originale. Qui, però, di roba da dire ce n’è, e anche tanta: si schiva il rischio di sfornare una pellicola di azione pura, più fruibile al grande pubblico (e forse più in linea con la fantascienza di oggi), in favore di un film introspettivo, quasi d’autore, che riesce ad approfondire l’immaginario del primo film senza però deturparne l’immagine. Il difficilissimo obiettivo che Blade Runner 2049 riesce quindi a centrare è quello di trasmettere un estremo rispetto senza tuttavia rinunciare a una sua narrazione e a una sua estetica: e (se ancora ve lo state chiedendo) no, non è bello quanto l’originale, ma semplicemente perché difficilmente altri film potranno mai avere lo stesso spessore emotivo e filosofico e lo stesso impatto innovativo di Blade Runner. Anche se forse è un po’ prematuro gridare al capolavoro, è innegabile come questo nuovo film sia maestoso, audace, a suo modo complesso, come omaggi il passato e riesca anche a ribadire gli storici interrogativi sull’umanità e l’identità: progresso vuol dire necessariamente andare avanti? Chi è un replicante? Chi è umano? Ma soprattutto, cosa vuol dire essere umano?
Blade Runner 2049 è un film generato dal grembo di una fantascienza del suo tempo, che ha una sua voce e parla con una sua lingua e una sua estetica, diverse ma non per questo incapaci di farci emozionare e stupire come quando guardavamo le luci al neon riflettersi attraverso un parabrezza appannato dalla pioggia. E se quello stupore sia umano o di un replicante, forse stavolta nemmeno il test Voight-Kampff potrà stabilirlo.