Hairetikòs: colui che ha scelto
di Valeria Barbarossa
Così si definisce l’eclettico e versatile cantautore italiano. L’incontro con la musica è stato amore a prima vista. Questo amore si è trasformato nella volontà di sperimentare, curiosare, mescolare e trasformare. Il risultato? Porta il nome di Max Gazzè.
Che con Mr Gazzè non ci si annoia lo avevamo capito da tempo. Ma mai ci saremmo aspettati che l’ennesima scommessa artistica si sarebbe concretizzata con il suggestivo accompagnamento della Bohemian Symphony Orchestra di Praga. Il 1° aprile a Spoleto è ufficialmente partito l’Alchemaya Tour. Approdato poi a Roma il 3 aprile al teatro dell’Opera, ha raggiunto altre tappe in giro per l’Italia. Un terreno musicale totalmente nuovo che vede pezzi riarrangiati in versione sintonica. In scena uno spettacolo carico di mescolanze maniacalmente studiate per equilibrarle tra loro. Un lavoro molto faticoso che si è rivelato un grandissimo successo… da dividere come sempre con il fratello Francesco.
Max quando e come è nata in te la voglia di fare musica?
È stata una conseguenza di risonanze. Mio cugino al piano di sopra suonava il piano- forte e mi ha contagiato. Avevo 6-7 anni ed ero particolarmente affascinato dalle
frequenze basse. Per questo mi sono avvicinato al basso. Poi ho iniziato a comporre alternando il pianoforte al basso elettrico.
Chi erano i tuoi idoli?
Tanti. Ho sempre amato la musica classica: Shostakovich, Debussy, Mozart. Mi piaceva il jazz quindi ascoltavo Miles Da- vid e Charlie Parker e poi i Pink Floyd, i Genesis, i Police. Ascoltavo molto il mondo inglese.
Come nasce un pezzo?
Dipende. A volte un momento di ispirazione si traduce in atto creativo. Oppure nel momento in cui ti predisponi ad un momento di composizione, crei. Non lo so di preciso. Per fortuna è un mistero quindi non voglio saperlo! È importante la capacità di cogliere il momento di ispirazione e trasformarlo in arte. Essere In Arte fa sì che tu produca un artefat- to in grado di veicolare una determinata emozione. Quindi il processo si compie nel momento in cui ascoltando un pezzo ricevi qualcosa. L’obiettivo è quello di trasportare un linguaggio metafisico, come quello dell’arte, attraverso un oggetto che può essere un quadro o una canzone. Nel guardare quell’oggetto rientri in uno stato di contemplazione metafisica e il processo artistico si compie.
I tuoi testi sono carichi di parole. È una dote naturale o sei maniacale nella ricerca del vocabolo giusto?
C’è uno studio ben preciso. È un lavoro, quello della ricerca del suono della paro-
la che già da sola deve essere musica, che faccio con mio fratello da tanti anni. La parola deve avere delle assonanze, delle rime interne. C’è una maniacalità nel gestire anche il suono delle consonanti per farle rimare. Sono rime interne, ovviamente, di cui non ti accorgi quando leggi il testo ma solo quando ascolti la canzone. È lì che scopri che quella T fa rima con quella B perchè ritmicamente danno il tempo. Tutte le canzoni hanno una geometria astratta ma molto ben organizzata.
Hai un pubblico molto vasto. Ti fa piacere?
Molto. Negli ultimi anni le mie canzoni hanno avuto un appeal radiofonico importante e quindi sono ascoltate anche dai bambini. E questo mi fa molto piacere.
A dimostrazione di ciò ti faccio due do- mande che mi hanno suggerito due bam- bine di sette e otto anni (Beatrice e Veronica). Perchè hai deciso di fare musica e che cosa provi quando ti esibisci davanti ad un pubblico?
Perchè ho deciso di fare musica non lo so! Me lo domando anch’io! Forse è stato un amore a prima vista, una vocazione… non è stata una decisione ma una scelta profonda, un’eresia. Forse sono stato una scelta. È la vita stessa che mi ha portato a questo.
Esibirmi per me è un momento di comunicazione. È il mio linguaggio che arriva a livello percettivo. È uno scambio tra me e il pubblico. Cosa provo esattamente? La gioia di suonare dal vivo è forte. Non ho nè ansia, nè paura, nè panico da palcoscenico… Mi stresso molto di più al supermercato per la scelta dei detersivi! Sul palco, invece, entro in contemplazione con quel momento e non penso troppo. È una forma di meditazione e non mi importa se stono o sbaglio. È importante il “qui ed ora”.
Quanto è rimasto in te del bambino che sei stato?
Penso che faccia sempre parte di me. Certo il mio subconscio ormai si è stratificato a dei livelli che devo ricordarmi di com’ero da bambino ma lascio sempre una porticina aperta alla memoria. Probabilmente rispecchiandomi nei miei figli (cinque, dai tre mesi ai vent’anni, ndr) e nei loro atteggiamenti riesco a ricordare io com’ero alla loro età. Questi ricordi li porto nella musica perchè questa è un linguaggio che prescinde dagli stati culturali. La musica è legata alla percezioni e non potrei viverla come la vivo se non avessi mantenuto una parte totalmente irrazionale che deriva dall’essere ancora bambino.
Sei molto istrionico sia a livello musicale che a livello di immagine (vedi le lenti a contatto a Sanremo 2016), pensi mai “E ora che mi invento…”?
No! Anzi, devo tenere a bada tutte le stronzate che mi vengono in mente! Mi sento molto punk, sono cresciuto nell’ambiente inglese… ne farei davvero tante ma poi chi è più ragionevole di me mi blocca… Bloccano la mia creatività (ride).
Le lenti a Sanremo? In quel momento pensavo allo share: speravo che i telespettatori, vedendo quegli occhi, si spaventassero e cambiassero canale! Scherzi a parte, è stato un atto teatrale. Nella canzone ero un predicatore surreale non si sa bene di cosa e il personaggio me lo sono immaginato così.
Hai mai pensato quella canzone avrei voluto scriverla io?
Tante volte ma non sono mai stato nè geloso, nè invidioso del lavoro altrui; anzi, quando sto con altri artisti mi piace con- taminarmi e confrontarmi con la loro creatività. Non sono competitivo ma curioso.