di Valeria De Medio
Vivere o morire
Dopo La fine dei vent’anni Francesco Motta sceglie, Vivere o morire: nove momenti perfettamente concatenati tra loro, dal rito ancestrale della felicità, alla dolcezza netta e sconfinata del dialogo a cuore aperto con il padre, in un movimento continuo e impossibile da interrompere, cadenzato da ritmi tribali e chitarra acustica, pianoforte e salsa cubana. E che stilla amore in tutte le forme.
Sulla copertina di Vivere o morire c’è ancora il tuo viso in primissimo piano, stavolta rosso e leggermente mosso. Cosa significa?
La copertina è stata scelta quasi per caso, da una foto scattata a casa: è simile all’altra perché per me è importante invecchiare con le canzoni e con la musica che faccio e mi piace l’idea di vederlo, oltre che sentirlo. A differenza de La fine dei vent’anni, qui la foto è anche in movimento, rispecchia come mi sento io nelle storie che racconto.
Ed è quasi come essere felice fa da contraltare a Del tempo che passa la felicità in La fine
dei Vent’anni, entrambe ad apertura degli album: un caso?
E’ quasi come essere felice rappresenta la canzone di passaggio da quello che ero prima a quello che sono adesso e che sono diventato grazie a un silenzio: in E’ quasi come essere felice è rappresentato da quel minuto di musica senza parole, è esattamente il passaggio da quello che ero prima a quello che sono ora, molto più contento.
Un disco ricco di contaminazioni: nella prima traccia il ritmo tribale africano si fa rito
sciamanico della felicità. Gli strumenti africani mi sono sempre piaciuti, ho ascoltato tanta musica del Mali, ad esempio Tinariwen e Mauro Refosco è brasiliano, per cui la contaminazione si sente, ma né io né Refosco veniamo dal Mali, per cui l’abbiamo occidentalizzata, interpretando a modo nostro la concezione basata sull’uno, preferendola ai quattro quarti. La struttura della seconda parte di E’ quasi come essere felice è permessa grazie al giro armonico su tre accordi anziché quattro e la divisione dispari permette un loop che non stanca.
Roma onnipresente: prima ti prendeva dal collo e ti lasciava per terra, ora dici che è arrivato il tempo di restare. Com’è cambiato il tuo rapporto con questa città?
Adesso Roma mi coccola. Prima ero affascinato più dalla malattia che dalla sua bellezza, ciò che invece mi conquista adesso.
Sei nato e cresciuto a Pisa, di passaggio a Livorno e adottato da Roma: cosa ti hanno dato
queste città?
Pisa e Livorno me le porto dietro come accezione positiva del provincialismo e Roma me ne ha fatto rendere conto. Ora la mia città è Roma, la mia indipendenza è qui e la sento mia a tutti gli effetti.
Vivere o morire non è una domanda, è una scelta: in che modo associ il ricordo, il recupero delle tue origini e il lasciarsi andare al futuro?
Penso che capire da dove si parte ti permetta di essere libero per poi andare dove vuoi e questo percorso prevede anche l’accettazione dello sbaglio e dell’errore, laddove c’è stato. Come dice Salmo “dove cazzo vai se non sai da dove vieni”?
E’ la tua prima volta come co-produttore, aiutato da Taketo Gohara e da Pacifico per i testi, sei soddisfatto?
Si, produrre un disco significa supportare e sopportare e farlo da solo non è stato facile, ci sono riuscito grazie a Taketo e Pacifico: per me è l’inizio di un nuovo modo di concepire la mia musica, fidandomi soprattutto di me, poi degli altri.
Il 26 maggio inizi il tour a Roma, come state preparando il concerto?
Anche stavolta il palco sarà come casa mia: ci saranno ospiti, ma la formazione è la stessa di prima, più Simone Padovani, percussionista che si è inserito benissimo in un equilibrio ormai consolidato. Sono molto contento di quello che stiamo facendo.
In La prima volta dici “e non chiedermi come andrà a finire” e io invece te lo chiedo: come ti vedi tra dieci anni?
Spero di essere ancora più felice di adesso.