Gaia: “Sono felice che la mia musica possa star vicino a molti in questo momento”

Di Alessio BoccaliGaia_cover

Gaia Gozzi è una giovanissima cantautrice che ha conquistato pubblico e critica durante il suo vittorio percorso nell’ultima edizione di Amici di Maria De Filippi. Artista versatile e col sangue fifty-fifty, mezzo brasiliano e mezzo italiano, ha da poco donato al pubblico il suo album “Genesi”, un pieno di ritmi latini contraddistinti non solo dalla voglia di ballare che trasmettono, ma anche da una forte componente comunicativa che rispecchia pienamente la necessità espressiva di Gaia. 

Ciao Gaia, come stai? Com’è stato il ritorno alla normalità che, purtroppo, non è tanto normalità?

Ciao Alessio, sì, stiamo vivendo una normalità apparente, strana. Io sto bene, sono veramente felice. Questo è un momento molto fortunato per me. Poi ovviamente c’è anche quella parte di me che è intristita dalla situazione, un po’ preoccupata… però cerco di concentrare i miei pensieri e le mie energie in qualcosa di positivo mentre aspetto che tutto passi.

Genesi ha esordito con il botto, non potrai cantarlo subito nei live magari, ma molti pezzi sono già delle hit radiofoniche e altri lo saranno. In un periodo come questo arriverai ad ancor più persone e aiuterai “a distrarli” con i tuoi ritmi da club mixati al sound brasiliano… la vivi come una responsabilità?

Sì, è una grande opportunità, ma anche una grossa responsabilità. In questo momento la musica è fondamentale: tutte le persone che fanno musica o un qualsiasi cosa di artistico hanno il dovere di tirare su gli animi, di far pensare a un futuro più luminoso dei giorni che stiamo vivendo. Per i risultati sono molto contenta, ma soprattutto se raggiungono questo obiettivo di far star meglio le persone in questo momento. Non riuscirei ad esultare per dei numeri se la mia musica non avesse un’utilità “sociale”.

Torno alle virgolette di prima, i brani sono tutti “allegri” dal punto di vista sonoro, ritmati, ma in realtà tratti di temi neint’affatto leggeri come “Chega” che può esser letto anche come un inno femminista o comunque un augurio alle donne ferite di rialzarsi…

Ho sempre difeso a spada tratta la musica che ti fa ballare. Se lavori con quel genere di suoni non significa che non puoi scrivere di un qualcosa che non sia muovere il sedere o far festa. La mia esigenza è quella di portare i beat che fanno parte delle mie origini brasiliane; ho portato della bossa nova, ho composto su ritmi incalzanti, però con dei testi che rappresentassero la mia esigenza comunicativa. Come hai detto tu, “Chega” ha un tema di sorellanza rosa che si concretizza in un invito ad uscire da quella zona di limbo che non ti fa star bene per cercare la serenità. E questo può avvenire in una relazione, come nel lavoro o anche con noi stessi.

Per quanto riguarda il sound di Genesi, come dici tu questi ritmi li hai nel sangue nel vero senso della parola, ma ti sei dimostrata pienamente a tuo agio anche in cover di pezzi dal mood decisamente differente. Quanto studio c’è dietro a questa versatilità?

In realtà, ho iniziato a studiare canto all’interno della scuola di Amici (ride, n.d.r.). Ho sempre fatto da me, scrivevo le mie cose in cameretta e solo nel post XFactor ho cominciato a scrivere tantissimo. Da sola, ma soprattutto con altri autori, che, con le loro collaborazioni, mi hanno aiutata a comprendere la mia identità artistica. Per quanto riguarda la versatilità, innanzitutto ti ringrazio per il complimento. Credo che possa essere frutto del fatto che non mi spaventa camminare fuori dal tracciato ed interpretare le cose a modo mio. Ho cantato capolavori di Dalla, Celentano o Tenco certamente lontani da me, ma la cosa bella è stata riarrangiarli e cantarli con il mio approccio vocale. Se li avessi cantati alla loro maniera non avrebbe avuto senso e non avrei rispettato la storia di quei brani.

Vista questa risposta e visto che nel disco ci sono anche pezzi in italiano, possiamo dire che la paura del cantare in italiano è quindi definitivamente superata?

C’è stato un processo. Quando mi chiedevano di cantare in italiano, io quasi per ribellione non lo facevo. Quando invece è partita da me questa esigenza, ho capito che il cantare in italiano non è assolutamente una paura. Ora sto continuando a scrivere in portoghese e in italiano. Come sono io, 50 e 50, così è la mia musica. L’italiano doveva solo avere il suo tempo.

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A proposito di questo, immagino che lavorare con un pool di autori come Di Martino, Pulli, Romitelli e altri… ti abbia aiutato.

Sicuramente, è stato bellissimo collaborare con tutti loro. Si è creata una vera e propria sintonia relazionale e questo ha portato ad un progetto come “Genesi” che è figlio di persone che vogliono fare musica con il cuore.

Nella spiegazione dei tuoi brani ho trovato tante volte la parola deserto riferita alla città di Milano, ma forse anche un po’ a determinati momenti della tua vita, e anche una sensazione di solitudine per esempio in “What I say”, mentre poi per “Stanza 309” parli di aver scoperto l’energia della condivisione e in “Chega” canti che non vale niente avere soldi per vivere soli, senza pace e senza amore. È questa ora la chiave della tua felicità?

Assolutamente sì. Nella mia giovane adolescenza son stata una ragazza molto timida, spesso sulle mie. Non penso però che quello fosse il mio modo di essere, piuttosto credo che fosse il timore di essere giudicata come persona e non solo come artista a frenarmi. Questa cosa è cambiata tantissimo quando ho iniziato a relazionarmi con più persone, ad uscire dalla mia zona di comfort, a viaggiare… A diciassette anni ho vissuto un anno e mezzo negli Stati Uniti e quello mi ha aiutato tantissimo ad aprirmi e a trovare chi fossi veramente a livello caratteriale. La condivisione è diventata ed è tutt’ora fondamentale per me.

E questa voglia di condivisione è quella che ti ha anche aiutata a riprovarci, a rimetterti in gioco dopo X Factor?

Sì, ho fatto X Factor a diciotto anni. Uscivo dalla mia cameretta, tanti miei amici non sapevano nemmeno che cantassi. Non c’era stato il momento “gavetta”. La gavetta l’ho fatta dopo e mi è servita tantissimo. Senza quel periodo di scrittura e ricerca non sarei quella che sono oggi. Anche con “Genesi” non voglio dire che riparto da zero dimenticando il passato. Non sono arrabbiata per il mio periodo di pausa, non rinnego il mio primo percorso televisivo, anzi, sono grata a tutto quello che mi è successo perché mi ha dato la possibilità di esperire e scrivere i miei pezzi.

Giochino molto in voga in questi giorni che abbiamo chiamato prima di “normalità apparente”. Tre brani che consigli di ascoltare per riempire le giornate:

Ultimamente sto ascoltando tanto “Giornate Vuote” di FRENETIK & ORANG3 e Gemitaiz, poi “Cellophane” di FKA twigs e “Slow Up” di Jacob Banks.

Perfetto, grazie Gaia. Vuoi aggiungere qualcosa?

Innanzitutto, ti ringrazio, mi hai fatto domande interessanti, mi hai messo a mio agio nel risponderti – e per questo ti ringrazio ancor di più – voglio solo aggiungere che questa situazione non è facile per nessuno, che dobbiamo stare a casa per tornare alla normalità il prima possibile e per tornare anche a fare concerti. Non vedo l’ora di portare la mia musica nei live! STAY HOME! Mi raccomando.

 

DIAMINE: dopo la “Via del macello” siam pronti all’esordio

Di Alessio Boccali

I DIAMINE, all’anagrafe Andrea Imperi Purpura e Niccolò Cesanelli, sono da poco usciti con “Via del macello”, il terzo singolo estratto dall’album d’esordio per Maciste Dischi/Sony Music Italy, che vedrà la luce il primo maggio e che si intitolerà “Che Diamine”. Poco importa se il disco in questione non potrà essere suonato in breve tempo, c’è altro di più importante cui pensare ora, l’obiettivo del duo elettro-pop romano è arrivare dritti al pubblico ed essere nelle loro teste quando tornerà il tempo di fare festa.

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ph. Sara Pellegrino

Ciao ragazzi, innanzitutto come state? Leggevo dalle vostre bio che siete due strumentisti che hanno deciso di mettersi in gioco in una nuova veste. Com’è nata questa idea?

Ciao, siamo abituati a periodi di auto-isolamento quindi ce la caviamo abbastanza bene. Cerchiamo di impiegare il tempo per rendere le nostre case e le nostre idee un po’ più accoglienti. Il progetto è nato principalmente dall’entusiasmo, qualcosa ci riempie in questo atto di creazione lontano anni luce dalle dinamiche da band e dai virtuosismi del singolo. Volevamo sperimentare nella nostra musica la sensazione bellissima di quando non hai più nessun riferimento a cui aggrapparti e così sei eccitato anche solo nel camminare e lo abbiamo fatto fino in fondo.

Il vostro singolo “Via del macello” è il secondo singolo che esce in periodo di quarantena dopo “Isolamento”, che meglio non poteva descrivere il periodo che stiamo vivendo. Questo nuovo singolo invece è quasi come un sogno, come una voglia di tornare alla normalità e di rivedere il tempo scorrere e con lui sbocciare e morire nuove emozioni…

Questo è un brano pieno di forse eppure risulta liberatorio perché affronta il dubbio con la saggezza perduta di un bambino. Il protagonista si fa delle domande ma quello che arriva di più probabilmente è la sua voglia di vivere, lo dico anche in base a quello che mi stai dicendo tu. Spesso la voce ha già la sua gestualità che risulta molto più efficace dei ragionamenti dietro alle parole.

Il vostro sound elettro-pop si presta molto alla creazione di atmosfere tra il serio e il faceto, tra l’immaginato e la realtà. E anche nei testi si nota bene la stessa ricerca al fine di ottenere il medesimo intento. Come si svolge il processo creativo dietro ai vostri pezzi?

Le modalità sono consolidate: Nico scrive la musica e io il testo, in secondo luogo io critico la musica e lui critica il testo finché non arriviamo ad un entusiasmo comune. Ci troviamo bene così. I rapporti veri hanno sempre bisogno di confronti, non sono mai fermi e non devono essere fermi. Bisogna saper viaggiare nell’insicurezza, l’uomo occidentale è troppo presuntuoso e non accetta zone d’ombra che invece contengono la nostra naturale follia che ci rende irripetibili, il motivo per il quale ci muoviamo e ci innamoriamo. Noi non facciamo affidamento all’immaginazione, anzi, per niente. Tutto l’immaginario che scaturiscono le nostre canzoni nasce da un tuffo nel profondo delle nostre realtà entro ovviamente i limiti del nostro sguardo. Quindi diciamo che tutto il surreale lo si trova già con un attento sguardo al reale, la fisica quantistica moderna ci sta dicendo le stesse cose.

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ph. Sara Pellegrino

Il vostro disco d’esordio “Che diamine” uscirà il primo maggio, probabilmente sempre sotto quarantena o comunque in un periodo storico molto complicato. Avete paura, anche e soprattutto per la prospettiva di non poterlo presentare live nell’immediato?

Probabilmente il disco non verrà suonato per molto tempo, pazienza. Ci sono cose più importanti adesso a cui dobbiamo pensare, la natura ci sta ricordando la sua supremazia su di noi, tornerà il tempo delle feste

Non vi chiedo di progetti futuri, ma di normalità. Quale vorreste che fosse la normalità di DIAMINE una volta usciti da questa grave emergenza sanitaria?

Come diceva Lucio Dalla: “L’impresa eccezionale, dammi retta, è l’essere normale”. Noi abbiamo voglia di scrivere e abbiamo sogni semplici: rivederci, parlare dal vivo, girare in moto, uccidere Gno di Maciste Dischi. Cose normali (ridono, n.d.r.).

Per finire, gioco classico in questi giorni. Qualche brano per sconfiggere l’isolamento.

Allora: “Nightcall” di Kavinsky, “Fluff” dei Black Sabbath, “I can tell” degli Sleaford Mods e “Un uomo che ti ama“ di Lucio Battisti.

 

 

IRENE GHIOTTO È “SUPERFLUO”!

Di Manuel Saad

Irene Ghiotto_photo session_02Irene Ghiotto è un vulcano di energia, una bomba all’idrogeno pronta ad esplodere. Nel suo nuovo album, “SuperFluo”, c’è tanta rabbia e tanta voglia di riscatto personale. L’abbiamo raggiunta per farci raccontare com’è riuscita a veicolare quest’energia nel modo giusto.

Ciao Irene, il tuo “SuperFluo” è pieno di venature, di percorsi. Qual è stato, invece, il percorso che hai intrapreso per arrivare ad avere tra le mani quest’album?

Ciao! Questa è stata letteralmente una crescita personale. Una crescita indirizzata verso l’indipendenza dalle persone che amo, difficilissima da ottenere. Mi è servito vivere da sola, sentirmi sola e spostarmi nel mondo da sola. Mi sono resa conto che non mi muovevo senza qualcun altro. Questo è un disco in cui cerco, nella mia età matura, di essere  il più indipendente possibile e di perseguire una felicità, una realizzazione, che sia solo mia e non appoggiata ad altri. Tutto intorno questo discorso c’è tanta rabbia derivata dall’incomprensione della mia complessità. Non sono arrabbiata con il mondo per questo ma con me stessa. L’effetto che ho avuto nella realizzazione del disco, però, non è stato quello di semplificare ma quello di spingere questa complessità.

Come mai questo titolo?

Non sono mai stata brava nella scelta dei titoli, tanto che il mio primo EP non aveva titolo.
Questa volta è stato diverso. Mi sto per laureare in Filologia Moderna e studiando per un esame di letteratura polacca, leggendo degli scritti di analisi critica, mi rendo conto che il tipografo per scrivere “superfluo” era dovuto andare a capo troncando la parola e io lessi “superflùo”. Quell’errore di lettura mi aveva fatto capire che spostando l’accento prendeva tutto un altro sapore. Mi ci sono ritrovata subito.
HO subito pensato ad un discorso di duplicità dell’anima che io sento di avere.

È difficile raccontare l’universo femminile attraverso la musica?

Non è difficile per me, in quanto femmina e quindi ascolto quello che sono. Forse il difficile sta nel rappresentarne la complessità – non che l’universo maschile non lo sia – e, anche, trovare il giusto linguaggio che mi inglobi completamente. Quando faccio un qualcosa, mi ci riconosco nel momento in cui l’ho fatta ma il giorno dopo già sono diversa.

Intendi una sorta di continua crescita?

Sì, esatto. Un’evoluzione continua che però rischia di cambiare la tua visione su quella cosa. Con il passare del tempo ti accorgi che molte cose erano rappresentative per te, prima. Quello che mi piace molto di questo disco è che mi ci rivedo ancora, nonostante mi senta già diversa. Sta “camminando” con me ma, come con tutte le cose, lo dovrò lasciar andare. Ed è anche questo il bello: la caducità.

Qual è stato il brano con il quale hai “lottato” di più e quello che invece è uscito subito, di getto?

“Le cose” è uscito subito. È sintetico, è corto e dice l’essenziale con molta forza.
Il brano che mi ha fatto imbestialire per la costruzione che c’è dietro è stato “Assurdità”. Infatti è assurdo!
Mi ero messa in testa l’idea che volevo definire l’assurdo. Definirlo testualmente ce la si può fare. Musicalmente è stato difficilissimo. Questo perché anche io cerco di riportare tutto al mio orecchio e ai miei canoni, e in questo lavoro che ho fatto, ho cercato di creare un nuovo canone, sempre con modestia (ride, ndr).

L’album si chiude con il brano “Le cose”. Un brano quasi sussurrato che successivamente esplode in una dolcezza orchestrale. Quali sono le cose e le parole che ti fanno star male?

Sicuramente non quelle che non capisco perché mi aiutano a crescere. Le parole che mi fanno stare male sono quelle dette per ferire, che non hanno un principio di evoluzione nella dialettica. Capita di riceverle e anche di dirle. Tutti siamo bestie e un po’ stronzi. Paradossalmente lo siamo con le persone che amiamo di più. Gli schiaffi in faccia più forti li ho ricevuti dalla famiglia. Se mio padre mi dice qualcosa, senza far attenzione, mi offende di più rispetto a qualcun altro.
Le cose che mi hanno fatto più male, invece, sono quelle che ho dovuto lasciare. Ho vissuto per sette anni in una casa in affitto. Mi ci sono affezionata tantissimo. Ogni volta che devo abbandonare qualcosa, mi rendo conto che gli ho messo dentro una storia e quando ho dovuto dire “ciao”, è stata tosta. Più che essermi portata le cose dentro alla mia vita, ho lasciato un po’ di me nelle cose che sono rimaste.
È la cosa più difficile ma questo ti rende libero dentro.

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Personalmente, ho trovato un altro tema in quest’album. L’empatia, l’essere empatici.

Tu mi stai prendendo per quello che sono veramente. È una cosa strana che tu l’abbia colta nei pezzi. Ti ringrazio perché non è scontato. Anche tu sei empatico e questo vuol dire che empatizzi con la mia empatia. Sono così empatica tanto da soffrire per questo. Non credo di aver scritto canzoni come inni all’empatia, ma credo di esserlo io. La parte brutta è che soffri tu, tantissimo, per le situazioni che vedi negli altri. Soprattutto se gli altri non te lo dicono, ma tu lo senti.
La cosa positiva è che l’empatico è apertissimo agli altri e per me la relazione tra gli esseri umani è fondamentale per la mia musica.
Quindi sì, c’hai beccato!

Stai pensando a qualcosa per i live? Come saranno strutturati?

La novità è che sarò totalmente in piedi, come una femmina potente e arrabbiata! Un approccio completamente nuovo in quanto nei miei live ho sempre suonato il piano o, male, la chitarra. Ho sempre avuto uno strumento che mi separava dal pubblico. Non mi sono mai consentita quella sicurezza di potermi muovere col mio corpo. Ho fatto molta danza da bambina ma ho avuto sempre qualche timidezza e l’ho abbandonata proprio perché sentivo di non riuscire ad esprimermi appieno con il corpo.
Mi rendo conto ora che mi trovo nel momento più florido della mia vita, come donna, come essere umano, che è proprio questo a rendermi più sicura a stare sul palco con il mio corpo, con la mia sensualità e con i miei gesti molto maschili. Il femminile e il maschile insieme.

Quanti sarete sul palco?

In questa prima parte del tour che faremo nei club più piccoli, saremo quattro anche se, in realtà, la formazione perfetta sarebbe otto. Ma per via di budget e di spazio fisico, abbiamo ridotto il numero.
All’inizio pensavo sarebbe stato molto difficile suonare il disco bene in quattro, ma mi sono ricreduta.
A tutti noi piace questo disco e lo suoniamo super spinto anche perché c’è davvero tanta chimica tra di noi. C’è molta intesa e ci riconosciamo l’uno nell’altro.

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YUMAN

YUMAN PRESENTA IL SUO “NAKED THOUGHTS”

di Alessio Boccali

“Run, run, run” e non arrenderti mai…

Yuman, all’anagrafe Yuri Santos, è un talento in rampa di lancio; il suo album d’esordio è una ventata d’aria fresca – cantata però da una voce calda – che sembra provenire da lontano e che si candida a ritagliarsi il suo spazio nel panorama musicale nostrano.

Ciao Yuri, com’è stato il percorso che ti ha portato alla nascita di “Naked Thoughts”?

È stato un percorso molto lungo, un vero e proprio parto (ride, n.d.r.). Sono stati due anni intensissimi: dalle prime bozze fino alla loro finalizzazione, dalla scrittura dei testi alla scrittura della musica. È stato un continuo reinterpretare le canzoni in un percorso quasi spirituale.

Cosa rappresentano questi “pensieri messi a nudo” da cui il titolo del disco?

Rappresentano tutto ciò che mi è passato in mente in questi ultimi due anni. Da qui il risultato e la grande varietà dei brani dell’album.

Hai suonato già su palchi importanti, come, ad esempio, quello dell’Indiegeno; quanto ti ha fatto crescere l’adrenalina donata da queste esperienze live?

Tantissimo. Il live mi fa impazzire: vedere tutta la gente che ti apprezza, naturalmente, ti carica, ti dà la spinta.

Un grido di battaglia, di rivoluzione per questo caos generazionale…

Credo che la vera rivoluzione sia lottare per essere se stessi, non abbiamo altro di più importante da fare al momento!

Quali sono stati i punti fermi che hanno guidato questo tuo esordio?

Sicuramente il producer Francesco Cataldo, con il quale abbiamo vissuto in simbiosi per parecchio tempo, e poi soprattutto gli amici, che mi hanno dato un grandissimo supporto. A volte è dura resistere, quindi devo sicuramente ringraziare tutti quanti loro.

Qual è la frase che ti sei ripetuto più volte durante la tua gavetta prima di arrivare a questo traguardo di un album? Forse quel “Run, run, run” che canti in uno dei pezzi del disco?

Esatto, poi sicuramente il “Ce la puoi fare” non è mai mancato; ci ho sempre creduto indipendentemente da spazio, tempo, età… non bisogna accontentarsi mai né adagiarsi. Questo non significa diventare maniacali, ma semplicemente saper tenere duro, lottare per i propri obiettivi e allo stesso tempo non arrendersi mai.

In conclusione, qual è la canzone di questo disco che canteresti con il tuo idolo?
Beh, il mio idolo vivente è Anderson Paak e ti dico che ci canterei molto volentieri “Love Ain’t Relaxing” o “Oh My!”.

Mauràs & Dj Bonnot: la rivoluzione ibrida

Di Cristian Barba

Meno “fotta” e più ironia, il tutto accompagnato da sonorità energiche e ballabili: il nuovo album di Mauràs e Dj Bonnot è un ibrido che riesce a mantenere un’identità. Mauràs, al secolo Mauro Sità, è uno che nella vita non ha mai fatto l’artista di professione, ma da più di vent’anni alimenta la sua passione per la musica come dj, rapper e producer. Nel 2016 si è messo in proprio con un progetto solista, inaugurato dall’album La vita è dura. A 3 anni di distanza è tornato con Dico sempre la verità, lavoro che segna una netta discontinuità rispetto al passato e che può vantare la produzione di Dj Bonnot.

Ciao ragazzi. Partiamo da Mauro. Si parla spesso di maturità artistica. Tu fai musica da tanto, quali consapevolezze porti in questo disco?

Mauràs: Porto questi vent’anni di esperienza, sia dal punto di vista dei live che soprattutto della scrittura. Non riascolto quasi mai quello che ho fatto prima perché so che stilisticamente non rappresenta il mio punto d’arrivo, mentre in quest’album mi ci rivedo alla perfezione. Ho fatto sempre roba hardcore che richiama molto il mio background, poi per fortuna ho incontrato Bonnot e ragionando su un po’ di cose abbiamo scelto la strada da seguire. Il bello è che entrambi volevamo creare qualcosa di nuovo e ci siamo lasciati andare.

Rispetto al tuo precedente lavoro – La vita è dura – hai sviluppato un approccio completamente diverso, meno incazzato e molto più ironico. Ti sei allontanato da quella che definivi working class music?

Mauràs: In realtà non mi ci sono allontanato tanto, ad esempio ho appena finito di produrre un album di Principe che si chiama proprio Working Class Rap. La vita è dura ha rappresentato un nuovo punto di partenza dopo l’esperienza con le band. Ho fatto tutto da solo, volevo buttare fuori il fatto che dopo 15 ore in cantiere tornavo a casa a fare scratch con le mani bendate perché erano spaccate dal lavoro. Andavo dritto, scrivevo strofe di pancia, registravo e via. Adesso è diverso, ho scritto 3 quaderni di strofe per lavorare sul linguaggio e voglio che la musica rispecchi la mia persona in tutto. Ci sono arrivato per gradi e voglio proseguire su questa strada.

Pensate che il risultato sia un disco complessivamente più leggero? È un tentativo di raggiungere più persone?

Mauràs: Leggero no, direi scorrevole. Abbiamo cercato di non fare robe scollegate dai tempi in cui viviamo, perché – come si dice nel rap – l’underground a volte è una scusa. Vorrei arrivare a tutti perché penso di avere le capacità per farlo. Non vedo perché chi ha la metà delle mie capacità di scrittura possa arrivare a tutti mentre io no.

Bonnot: Abbiamo lavorato insieme sul mood per cercare di renderlo più aperto, non per forza per tutti ma neanche troppo hardcore. Volevo fare una cosa che trasmettesse energia e che rispecchiasse un po’ anche il periodo positivo che sto vivendo.

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Le sonorità di questo album non inseguono il minimalismo imperante nel rap, anzi ci avete messo dentro chitarre, fiati, batterie. Come ci siete arrivati?

Bonnot: Per me è stato continuativo rispetto al lavoro fatto finora, ho utilizzato questo parco strumenti in tutti gli album che ho prodotto dal 2005 con gli Assalti Frontali. Allo stesso tempo, con M1 deadprez ho anche fatto produzioni vicine alla trap e quindi ho sentito cose molto belle anche su quella vibe. Non ho pregiudizi, però sono un bassista/contrabbassista e amo la musica suonata. In questo album spesso i giri di basso creano il groove, sono lo scheletro su cui si poggia tutto il pezzo. Ci sono molti fiati – praticamente in metà album – registrati live da artisti bravissimi. Alle chitarre ho chiamato Ermanno Fabbri, che è un mostro e che considero uno dei più grandi chitarristi italiani viventi. Alle batterie avevamo il Ninja Enrico Matta, che ha fatto la storia con i Subsonica e non ha bisogno di presentazioni. Sono musicisti scelti in maniera meticolosa, perché in base al musicista che scelgo coloro il disco in una certa maniera. Stessa storia per gli strumenti: abbiamo usato un preamplificatore – che ho acquistato da Billie Joe Armstrong – con cui i Green Day hanno registrato 5 album e un microfono utilizzato da Freddie Mercury per 7 album dei Queen. Nel complesso, mi sono soffermato sul tentativo di fare un disco acustico che suonasse da elettronico, come alcuni brani dei Daft Punk o di Bruno Mars.

Com’è nata la collaborazione?

Bonnot: Ci siamo conosciuti ad un concerto nel quale Mauro suonava in apertura agli Assalti Frontali e mi lasciò il suo disco dopo il concerto. La mattina dopo l’ho riascoltato – su questo sono un po’ vecchia scuola, ascolto tutto quello che mi viene dato – e ho trovato una buona padronanza sia tecnica che lessicale per cui ho pensato che ci si potesse lavorare. Tra l’altro mi aveva anche scritto su Facebook due anni prima ma mi ero perso il messaggio.

E non credo che per Mauro sia stato un peso fare un passo indietro e occuparsi solo dei testi…

Mauràs: No anzi, per me è stato bellissimo. Mi piace produrre e fare beat, però concentrarmi sulla scrittura era il mio obiettivo e volevo farlo buttando in mezzo anche il mio lato ironico.

Nell’ultima traccia – In confusione – scrivi “si abbassa la soglia di attenzione, tocca svuotare la forma canzone, lascia suonino canzoni vuote”. Dobbiamo rassegnarci a “canzoni che durano quanto meme” o vedi un’alternativa?

Mauràs: Ovviamente c’è l’alternativa, chiudere il disco in quel modo è una provocazione. La musica “facile” c’è sempre stata e le canzoni che durano quanto meme sono fatte con quello scopo, è una cosa consapevole. Nel disco non dico mai come si deve o non si deve fare, provo solo a fotografare il contesto che viviamo.

 

Ilaria Viola, rompere gli schemi e diventare finalmente DONNA.

Di Lavinia Micheli

Se dovessi descrivere con una parola Ilaria Viola, probabilmente sceglierei empatia. Il suo ultimo album, Se nascevo femmina, uscito il 24 maggio, è un disco pregno di empatia verso un modo di sentire tipicamente femminile e femmineo. È facile rispecchiarsi in quei testi pieni di voglia di rottura rispetto ad un costrutto culturale che relega, anche in maniera inconscia, le donne entro schemi rigidi e limitanti, volti ad una categorizzazione a tutti i costi. Quello di Ilaria è un grido contro il pregiudizio, un’invocazione alla libertà di essere come si vuole in ogni momento, in barba ai precetti e ai manierismi del “come si conviene”. Ma lasciamo che sia lei a raccontarcelo.

Ciao Ilaria, la prima cosa che ha destato la mia attenzione quando è uscito il singolo Se nascevo femmina, è stata la sua assoluta originalità. Si percepisce una grande volontà di rottura che si trasferisce anche sulla composizione musicale del pezzo. Cosa volevi “rompere”?

Un sacco di cose. Intanto, e questo è un discorso che vale per l’intero disco, il mio essere un’artista un po’ manierista. Volevo rompere la mia patinatura: quel nascondermi sempre sotto lo studio, sotto la bella musica. L’intento era quello di risultare più diretta e la violenza del brano è dettata dall’argomento trattato: quello è un brano che io ho scritto in seguito ad una arrabbiatura reale con la mia famiglia. Eravamo a tavola con tutte le mie cugine ed ero l’unica a non avere ancora figli. Ad un certo punto è arrivata la sentenza fatidica: “Tanto tu dici che non vuoi figli e quindi non sarai mai una donna completa”. A quel punto ero indecisa tra il compiere una strage di massa o riversare tutte le mie sensazioni in una canzone. Ho scelto la seconda opzione (ride n.d.r.). E quindi sicuramente un’altra cosa che voglio rompere sono gli schemi maschilisti della nostra società, che ormai sono insiti anche negli ambienti femminili.

In effetti quest’album è molto femminile e femminista, nel senso più puro del termine. Si sente che parli fuori dai denti e ti senti stretta in qualsiasi tipo di definizione. Ti è mai capitato di sentirti stigmatizzata o costretta in una sorta di “scatola” nel tuo mestiere?

Guarda, io purtroppo sono una cantante e sono una donna. Quindi assolutamente sì. Ma non solo nel mio ambiente. Lasciamo per un attimo perdere il mondo del cantautorato ed entriamo per esempio in quello dell’insegnamento. In questa scuola di musica dove adesso insegno, non c’è neanche una cantante donna che gestisca un laboratorio, perché il senso comune vuole che le cantanti donne non capiscano nulla di musica: non sanno leggere, non conoscono l’armonia, non sanno gestire l’arrangiamento dei brani, non sanno scrivere ecc. Esiste un vero e proprio stigma che a me ha sempre fatto abbastanza imbestialire. All’uscita del mio primo disco, Giochi di parole (2014), avevo paura di dire che avevo arrangiato in prima persona i pezzi insieme a Daniele Borsato (chitarrista di Lucio Leoni n.d.r.): temevo che non appena fosse uscito fuori il suo nome sugli arrangiamenti io sarei improvvisamente passata in secondo piano, musicalmente parlando.

Nel brano Per mezz’ora canti: “Perché io m’innamoro per mezz’ora/ di ogni uomo che profuma un po’ di storia/ e ogni volta m’innamoro per davvero/ senza contegno, senza ritegno, senza rispetto”. Una bellissima ammissione di arrendevolezza e libertà in un mondo che ci vorrebbe sempre cinici e razionali anche rispetto a storie fugaci?

La razionalità è insita nell’innamoramento secondo me. Perché l’innamoramento è una cosa che ti prende a livello mentale e ti coinvolge totalmente. Quindi si tratta di una contingenza qualsiasi- un uomo, una donna, un’amica, qualsiasi cosa- che in quel momento catalizza tutte le tue attenzioni. Questo per me è innamorarsi e quindi ha molto a che fare con l’intelletto e la razionalità. Dopodiché, questo pezzo si collega anche molto a Martini (la quinta traccia dell’album n.d.r.) che invece parla del sesso occasionale che io riesco a fare soltanto se sono innamorata, ma solo per quella mezz’ora lì! Più che di differenza tra razionalità e irrazionalità si tratta di quella che c’è fra essere leggeri ed essere superficiali.

Scorrendo i vari brani dell’album si possono scorgere varie influenze che vanno a comporre quella che è la tua personalità artistica. Mi ha colpito il brano Per la gola, scritto da Leila Bohlouri, che mi ha ricordato una sorta di via di mezzo fra La ballata dell’amore cieco di De André e uno stornello romano. Vuoi raccontarmi come è nata questa canzone?

Mi ricordo che la prima volta che l’ho ascoltata mi trovavo ad un contest di cantautori, eravamo ancora tutti agli inizi. Sentii questo pezzo e mi piacque subito da morire anche perché la storia raccontata è abbastanza tragica (un uomo stufo delle continue lamentele sui pasti preparati per la sua donna che alla fine si vendica divorandola n.d.r.) e fa da contrasto con quest’aria da stornello allegro del pezzo, cantato da questa mia amica con il sorriso sulle labbra. In seguito Leila pubblicò un album di musica elettronica e non era riuscita ad infilarci questo brano meraviglioso, quindi l’ha dato a me. Io mi sono semplicemente limitata ad abbassarlo di tonalità per renderlo ancora più cupo.

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In Bamboombeto, che vede la partecipazione di Lucio Leoni, descrivi i grandi paradossi della società giapponese, a cui ti sei approcciata durante un viaggio in solitaria di circa un mese: il loro essere al contempo razzisti e profondamente ospitali, spirituali e malati di tecnologia. Cosa ti ha lasciato questo viaggio? Perché hai deciso di scrivere questa canzone?

Più che lasciarmi qualcosa, questo viaggio mi ha lasciato andare. Molte persone che mi sono vicine mi hanno fatto notare che in realtà non sono ancora tornata del tutto. È stata un’esperienza fortissima di viaggio, concentrato principalmente nella parte rurale nel sud del Giappone. Ho fatto un intero pellegrinaggio shintoista-buddista che è il Kumano Kodo, pur non essendo buddista né religiosa in generale. Ma credo nella meditazione come recupero delle energie mentali e lì sono riuscita in diverse occasioni a raggiungere la giusta concentrazione: le ore scorrevano come minuti in una serenità totale. Quindi il Giappone mi ha lasciato molta energia mentale. La filosofia buddista è qualcosa di pazzesco, i giapponesi invece sono abbastanza particolari. Fanno una vita assurda, improntata a ritmi frenetici di lavoro, relegando il pochissimo tempo libero a disposizione alla famiglia ristretta, intesa come nucleo famigliare. La vita sociale praticamente non esiste. Chiaramente tutto ciò porta ad una grandissima efficienza: i bambini per esempio già piccolissimi sono in grado di costruire robot! Questa cosa mi ha abbastanza sconvolta.

Il tuo primo album, Giochi di parole è del 2014, ed è radicalmente diverso da Se nascevo femmina. Cos’è cambiato in Ilaria, “nata donna”, in questi cinque anni?

Allora, Ilaria ha avuto una rottura con la musica molto pesante. La vita in questo ambiente è molto dura: la musica ti mangia la vita e a volte è davvero difficile andare avanti, trovare una stabilità. Contestualmente e paradossalmente cominciavo in realtà la scrittura del nuovo disco, con il primo pezzo che era ancora qualcosa di molto costruito, più simile a quelli presenti nel primo album. Un collaboratore di Lucio Leoni, Filippo Rea, che mi ha aperto letteralmente la testa, lo ha ascoltato e mi ha detto: “Ilaria hai stufato con questa storia di nasconderti dietro i tuoi manierismi, dietro lo studio. Nascondi te stessa sotto tutti questi strati e non esci mai! O cambi modo o non vai da nessuna parte e sarebbe un peccato.”. Ho quindi deciso di canalizzare tutta la mia rabbia e la mia energia nella scrittura dei pezzi, ed è uscito fuori il disco che hai sentito.

Romana de Roma. Quanto c’è di questa città nel tuo modo di scrivere e cantare?

Tantissimo. Non posso prescindere dall’accento romano quando sono spontanea, e nel disco, essendo molto spontaneo, si sente abbastanza. Però mi sono contenuta perché volevo che fosse un album che arrivasse a tutti. Io sono stata cresciuta da mia nonna che è una romana de Roma vera, che viveva a Centocelle e parlava a frasi fatte. Inevitabilmente quel modo di fare e di parlare si è insinuato dentro di me, bimba, e non mi ha lasciato più. Roma è una città che si ama e si odia tantissimo, ma è la più bella del mondo!

E cosa ti senti di consigliare alle ragazze che vogliano intraprendere la carriera cantautorale?

Sicuramente di ascoltare tantissima musica di tanti generi musicali diversi. La seconda cosa che consiglio, che può essere anche un’arma a doppio taglio, è di studiare musica e leggere tanti libri. E poi non bisogna smettere mai di prendersi in giro.

Prossime mosse per il disco?

Il primo luglio c’è la presentazione a ‘Na cosetta Estiva a Roma. Per quest’estate sono previste delle aperture che vanno ancora gestite in quanto l’album è uscito da poco. Il tour vero e proprio partirà in autunno.

 

 

 

 

 

RAIGE, “Affetto Placebo”mi ha aiutato a prendere coscienza di chi sono oggi e ad andarne molto fiero.

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Di Alessio Boccali

“Affetto Placebo” è un disco che ci restituisce un RAIGE totalmente artefice del suo destino, un artista maturo che, nella sua cifra stilistica pop-urban, è riuscito a trovare una chiave originale per dare tutto se stesso ed esprimere concetti concreti e mai banali: all’individualismo della società, alle ansie e alle mille preoccupazioni che abbiamo, possiamo trovare una soluzione nei rapporti che creiamo.

Ho incontrato Alex (RAIGE, n.d.r.) in un pomeriggio tempestoso di un maggio che sembra più un novembre, e prima del suo firmacopie alla Discoteca Laziale ci siamo presi un attimo di tempo per chiacchierare del suo “Affetto Placebo” accompagnati dal rumore della pioggia sul tetto di vetro che ci ha tenuti al riparo.

Insomma Alex, “giochiamo” un po’ con i tuoi nuovi brani: “Com’è successo” che sei arrivato a questo nuovo disco quando, come canti, avevi quasi spento i sogni?

Proprio per questo nasce “Affetto Placebo”. Questo disco è frutto della necessità di un disagio e della voglia di tirar fuori qualcosa che mi premeva da dentro. Infatti, è il primo disco, dopo tanto tempo, che non nasce da esigenze contrattuali. Sono riuscito a slegarmi dalla mia precedente etichetta e ho scelta di dare vita a un disco che nasce esclusivamente da un’esigenza artistica.

Nella title track “Affetto Placebo” canti che ciò che non ti ha ucciso, ti è rimasto sulla pelle: quanto è stato difficile esporre così tanto il tuo lato più intimo e le tue fragilità?

Non ho mai avuto paura di dare il 100% di me stesso nella mia musica, questa volta però è stato liberatorio. Quindi non è stato difficile, è stato d’aiuto. Ti dico solo che quando scrivevo “Alex”, il mio ultimo album con la major, molti dei miei pezzi furono esclusi proprio perché troppo personali e sostituiti con pezzi scritti da altri autori. Questo disco mi ha aiutato a prendere coscienza del processo che mi ha portato ad essere chi sono oggi e ad andarne molto fiero. Il pubblico, poi, sembra apprezzare: mai come adesso, nemmeno nel post-Sanremo, ho avuto così tanti ascoltatori su Spotify e questo mi fa presagire e sperare che sto facendo davvero la cosa giusta.

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Con questo disco il tuo obiettivo resta quello di raggiungere il pubblico pop con uno stile urban, comunicando concetti concreti e difficili da comunicare con sonorità spesso, almeno all’apparenza, leggere…

“Affetto Placebo” assomiglia molto in termini stilistici a un altro mio disco, che amo molto, che si chiama “Addio”. In generale, anche nel mio primo disco “Tora-Ki”, considerato da molti un pilastro del rap italiano, io cantavo i ritornelli. Per me è proprio fondamentale questo mix pop-urban: fa parte di me.

In “Davvero”, poi, canti “È bastato che perdessi un treno per incontrarti dentro alla stazione…”: una metafora della vita, nella quale spesso non bisogna affidarsi istintivamente solo al carpe diem?

“Davvero” è un po’ una mosca bianca nel disco: per esempio, è l’unico pezzo d’amore felice oppure è nato al CET di Mogol mentre il resto del disco è stato scritto sull’asse Torino-Milano. In questo pezzo ribalto i luoghi comuni e l’amore, come ogni altra cosa bella, spesso è solo questione di casualità e occasioni fortuite.

In questo disco c’è un pezzo che mi ha colpito molto, che si intitola “Asia”. Mi ha colpito particolarmente soprattutto il ruolo dello specchio in questa canzone. Questo specchio, poi, mi ha rimandato ad un altro tuo brano, di qualche anno fa, che è “Ulisse”. In quest’ultimo il ragazzo si serve dello specchio per recuperare una dignità e apparire forte davanti agli altri, mentre la protagonista di “Asia” guardandosi allo specchio non si riconosce. C’è un messaggio dietro rivolto a una società che premia sempre più l’apparire, a discapito dell’essere?

Quello sicuramente, soprattutto se pensiamo al paragone che hai fatto. In realtà nell’intenzione, il pezzo parla di una ragazza che ancora non ho conosciuto, ma della quale sono già follemente innamorato. Lei si trova in una grande città, lontana dai suoi cari e si scopre più debole di quanto pensasse. A quella ragazza io suggerisco di guardarsi allo specchio e di stare tranquilla perché, anche se la vita non è perfetta, lei la sua strada, prima o poi, la troverà. Il velo di malinconia che avvolge il pezzo è, quindi, sempre bilanciato dalla mia volontà di trovare la luce.

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In un disco così personale, non poteva mancare una piccola reunion con gli altri OneMic (tuo fratello Ensi e Rayden). Il pezzo che cantate si chiama “Scuola Calcio” ed è un bel paragone tra la vita e il calcio, all’interno del quale citate tante bandiere di questo sport…

Il calcio nei campetti insieme agli amici mi ha formato parecchio. Pesavo 120 kili, era chiaro che non sarei mai diventato un campione, ma lì ho imparato a buttare il cuore oltre l’ostacolo, a correre, a sudare per dei valori, per dare il 100% a chi dava il 100%. Questa per me è una bella metafora della vita. Nel ritornello dico “A diventare grandi ci vuole coraggio, capire se tirare o se fare un passaggio. La vita è la più grande scuola di calcio che c’è…”. In un momento di grande individualismo, capire che invece di tirare tu, puoi passare il pallone a qualcun altro che è più bravo a fare gol, è una forte prova di coscienza. Nella domanda hai parlato delle bandiere che citiamo nel pezzo; beh, quello che è successo di recente a campioni come Del Piero, Marchisio, Buffon e di recente a De Rossi, ti fa capire che il concetto di individualismo in questa società è ben radicato. Eppure, son convinto che tutto questo passerà e torneranno i tempi d’oro delle bandiere. La storia è ciclica, anche per questo ho scritto un album così.

Il futuro?

Finisco la promozione e poi mi prendo un periodo di pausa all’interno del quale faccio tre cose stupende. La prima non posso ancora raccontartela, la seconda riguarda la stesura del mio secondo romanzo e la terza riguarda la preparazione che porterà al tour, che partirà, presumibilmente, ad ottobre e che sarà completamente in unplugged, voce – chitarra – batteria.