Emanuele Aloia e quel senso di eterno ricercato nell’Arte

Di Alessio Boccali

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Emanuele Aloia, giovanissimo cantautore torinese, sta vivendo un successo immenso grazie al suo “Il bacio di Klimt”, un brano che parla ai giovani (e non solo) con una semplicità e allo stesso tempo una profondità tali da farlo schizzare in vetta alle più note classifiche musicali nostrane e riuscire a conquistare il disco d’oro. Un successo fortemente aiutato dalla piattaforma social Tik Tok, che ha permesso al pubblico di conoscere un ragazzo, un artista, che cerca di imprimere il suo marchio di fabbrica nella musica attraverso originali riferimenti al mondo della storia dell’arte e della letteratura. Questo il resoconto della nostra piacevole chiacchierata:

Ciao Emanuele, innanzitutto, come stai?

Ciao! Tutto bene, sto ritornando a una lenta normalità; faccio musica, anche se quello non ho mai spesso di farlo, rispondo alle interviste… insomma, si ricomincia.

aloia_il_bacio_di_klimt_640_ori_crop_master__0x0_640x360Il tuo brano “Il bacio di Klimt” sta davvero spopolando. Perché questo titolo e perché, secondo te, il Bacio di Klimt è così iconico?

Il titolo nasce dopo la canzone; quando ho finito di scriverla, ho subito pensato che dovesse chiamarsi così. Questo racchiude a pieno il senso del brano. È difficile dare una risposta, invece, sull’iconicità dell’opera d’arte vera e propria. Nell’arte non c’è mai una spiegazione logica che ti motivi il perché questa arriva alle persone; sicuramente ne “Il bacio” una gran parte del lavoro possiamo dire tranquillamente che la fanno i colori, i quali danno al quadro un senso di eternità, che poi è quello che vorrei trasmettere con il mio brano.

Un altro tema portante del singolo è quello della solitudine; problema sempre di grande attualità e che, ora più che mai, con questo virus e questa digitalizzazione del mondo della scuola, rischia di toccare di più i giovani; sei giovanissimo anche tu e tramite i vari social parli molto con tanti ragazzi; cosa vuoi trasmettergli in questi giorni?

Premetto che il brano nasce prima di tutta questa brutta situazione, tuttavia, sono molto fatalista e questa canzone sembra proprio descrivere un momento come quello dal quale ci stiamo lentamente rialzando. Ciò che mi sento di poter affermare è che le emozioni più negative come la malinconia, o appunto la solitudine, fanno parte della vita e vanno sempre affrontate. Bisogna cercare di essere sempre abbastanza equilibrati: sia nel vivere le gioie che nei momenti di tristezza.

Com’è portare la storia dell’arte, la letteratura…, in un’altra forma d’arte come la musica?

Nonostante abbia solo ventuno anni, ho già vissuto diverse trasformazioni su di me, sul mio essere artista. Non sono un esperto d’arte, sebbene ne sia appassionato; sono un tipo soprattutto curioso e mi affascinano la storia dell’arte, la letteratura – che poi in musica diventa quel cantautorato con il quale sono cresciuto – e sicuramente tutto ciò sta incidendo su quello che è il “marchio di fabbrica” della mia scrittura. Scrivo sicuramente meglio di come facevo qualche anno fa, ma naturalmente c’è sempre tanta strada da fare. Sono arrivato al punto, però, di voler affermare una mia precisa identità per differenziarmi e fare la differenza. Sicuramente, questo è un lavoro lungo che richiederà tanto tempo, ma sono sicuro che avverrà tutto in maniera naturale.

L’influenza della musica sull’ascoltatore è cosa nota, soprattutto per quanto riguarda i più giovani. Tu hai una bella responsabilità perché inviti a percepire la bellezza. Quanto è presente questo pensiero quando scrivi e soprattutto quanto pensi peserà questo nel tuo imminente futuro, visto anche il successo de “Il bacio di Klimt”?

Quando hai un pubblico molto giovane – per quanto con quest’ultimo pezzo l’età media del mio pubblico si sia alzata e questo mi fa molto piacere – la responsabilità è sempre più grande. Devi dosare le parole, devi pensare molto a quello che dici. Sono comunque molto tranquillo perché prendo ispirazione dalla bellezza, come dicevi tu, e quindi è difficile sbagliare. L’unica tensione che posso sentire un po’ più forte in questo momento è proprio quella strettamente collegata al successo de “Il bacio di Klimt”. Certamente, ci sarà un determinato tipo di attenzione sulla mia prossima uscita, ma questa oltre che una tensione è anche, e soprattutto, uno stimolo. Sono un tipo molto competitivo e ritengo gli stimoli esterni molto utili. Per quanto riguarda il mio invito a percepire la bellezza nella cultura, che citi nella domanda, mi fa sempre molto piacere quando ricevo dei messaggi da parte di teenager che mi ringraziano per averli fatti incuriosire a quel quadro piuttosto che a quell’autore letterario…

Hai poco più di vent’anni eppure hai comunque una buona gavetta alle spalle…

Scrivo da quando avevo tredici anni e a quattordici avevo già aperto un canale YouTube dove pubblicavo i miei inediti – naturalmente discutibili (ride. n.d.r) -, non ho mai smesso di crederci.

emanuele-aloia-980x551A proposito di YouTube, hai avuto grande successo “social” grazie alla piattaforma Tik Tok; possiamo considerare quest’app come una sorta di nuovo YouTube, naturalmente con modalità estremamente differenti, che può fungere da rampa di lancio per gli emergenti?

Assolutamente sì. Anche se son diversi i tempi di fruizione: su YouTube senti il pezzo intero, su Tik Tok ti entrano in testa delle frasi, degli incisi. L’importante è far capire a tutti è che Tik Tok è solo un mezzo; se un pezzo esplode a caso su quella piattaforma, ma non ha potenzialità per resistere altrove, si ferma là. Tik Tok può lanciarti, ma se poi la tua musica non ha un certo peso specifico, non vai da nessuna parte. Le persone sono molto pigre sui social, se quei pochi secondi di canzone ascoltata in un tik tok ti invogliano ad interessarti di più a quell’artista, significa che qualcosa di quel pezzo gli è rimasto dentro.

Un altro tuo brano che ho apprezzato molto è “Sempre”, uscito anche lui quest’anno, molto interessante anche il video con un altro omaggio letterario…

Son molto contento di parlare di “Sempre” perché quello è un brano molto bello, che però va capito. In un certo senso c’è un filo che lega le mie canzoni più conosciute e lo possiamo racchiudere nel senso di eternità, di cui abbiamo parlato anche prima. “Sempre” non è autobiografica e proprio per il peso che ha questa parola, a ventuno anni non ho scelto di fare un video ufficiale con due ragazzi mano nella mano a rappresentare una promessa d’amore, una scena vista e rivista. Per il videoclip ho scelto invece di prendere in prestito i protagonisti di una saga cinematografica come Harry Potter, che conoscono praticamente tutti, e in particolare provare a raccontare, con la mia canzone, l’amore di Piton per la madre di Harry: un sentimento più forte di tutto, che per proteggere il figlio della donna amata, arriva ad influenzare in negativo il pensiero che le persone hanno di lui. Un amore che si riflette perfettamente nel concetto di eterno.

Progetti futuri? Un album? Hai già le idee chiare su quale sarà il “colore”, il mood dominante di quest’album?

Di album pronti ne avrei veramente tanti per quanto scrivo (ride, n.d.r.). Il mio percorso finora è sempre andato avanti di singolo in singolo, ma “Il bacio di Klimt” ha dato sicuramente un’accelerata che ha portato me e chi mi segue a pensare decisamente a un album. L’obiettivo – non semplice sicuramente – è quello di portare un qualcosa di originale e per farlo c’è bisogno di un po’ di tempo. Uscirà quando, da perfezionista quale sono, sarò convinto al 100% di aver impresso il mio marchio di fabbrica sul lavoro che andrò a presentare.

Dalì Experience

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I weekend Bolognesi sono contraddistinti dalle lunghissime file alle tante mostre e musei che la città offre ai suoi cittadini e turisti. Uno di questi, è la Dalì Experience a Bologna che si propone come un’esperienza museale unica nel suo genere nel contesto Bolognese. 200 opere appartenenti alla Collezione di Beniamino Levi saranno infatti esposte e inserite in un contesto multimediale ed interattivo a Palazzo Belloni fino al 7 Maggio. Particolarmente significativo il contributo di Loop srl, una realtà imprenditoriale creativa bolognese che costruisce interazione tra arte ed utenti attraverso alla tecnologia. Un percorso museale che si allontana dal tradizionale ed “ingessato” museo e che cerca di far esplorare la dimensione psicologica e filosofica dell’artista. L’esposizione è stata organizzata da con-fine Art con il patrocinio del Comune di Bologna e supportata da alcune realtà giornalistiche quali QN Quotidiano Nazionale, Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno. Sarà forse questa ampia partecipazione dei giornali o l’autovalutazione dell’esperienza come “provocante, paranoica, esagerata e ri-creativa”che ha prodotto non poche aspettative tra gli utenti. Si può dire che in generale, per coloro che non sono familiari con i format museali già presenti in altri paesi europei, questa mostra potrebbe essere vista come innovativa e all’ avanguardia. Positivo è senza dubbio il percorso animato da installazioni suggestive e che stimolano una riflessione sui temi che l’artista metteva in discussione con le sue opere. In generale, è facile ripercorrere i principali aspetti dell’arte di Dalì e con questo della sua vita grazie a una divisione concettuale delle stanze. Le installazioni multimediali potrebbero essere anche una buona scusa per distrarre i bambini e farli interessare a complessi concetti filosofici quali le illusioni percettive, il concetto di tempo, le quattro dimensioni ed ad aspetti della psiche umana. La mostra è indubbiamente “social” attraverso all’ immancabile app e all’ hashtag #daliexperience che ha collezionato quasi 4000 condivisioni su Instagram.

Apprezzatissimo sembrerebbe essere il sofà a forma delle labbra di Mae West in rosa Schiapparelli, il bagno, decisamente molto creativo e i baffetti forniti all’ ingresso con cui scattare favolosi selfie. Purtorppo però le tecnologie che erano disponibili non sono state valorizzate al massimo. Secondo quanto riportato da alcuni visitatori su TripAdvisor, i tablet contenevano descrizioni troppo lunghe e per nulla interattive. L’audiopen fornita all’ ingresso si limitava a trasmettere materiali audio quali suoni o poemi che purtroppo erano troppo lunghi o irrilevanti. Poca attenzione è stata data all’ importanza dell’arte surrealista nei diversi ambiti creativi tra cui moda, arredamento funzionale, pubblicità e cinema. Pur essendo chiaro il tentativo di sottolineare questi aspetti fondamentali ed evidenti nell’attualità, questi non sono stati resi esaustivamente visibili all’utente ad esempio attraverso proiezione di video. Indubbiamente questa esperienza costituisce un passo in avanti nel lungo viaggio che porterà verso un tipo di museo più coinvolgente, che sappia intrattenere e mantenere l’attenzione del visitatore, smettendo di radicarsi dietro ad antiche gerarchie dove la cultura appartiene solo ai più istruiti. Questo percorso è ancora lungo ma sicuramente questa mostra indica una buona direzione per una nuova esperienza di museo per tutti.

Vantablack is the new black: uno sguardo alla sostanza più scura creata dall’uomo

Pensate al nero: è il colore scuro per eccellenza, il più scuro. Ma pensate bene a tutti gli oggetti comuni di colore nero che possedete: se sono posti in un ambiente in cui la quantità di luce è sufficiente a permettervi di vedere, sono nettamente riconoscibili nella forma, nel modo in cui si propagano nello spazio. Potete distinguere chiaramente l’andamento della superficie dell’oggetto, grazie alla presenza di zone di luce e zone d’ombra (anche minime) che vi permettono di creare una precisa immagine mentale di com’è fatto quell’oggetto in ogni suo dettaglio.  Un esempio possono essere le sculture che seguono:

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non è forse chiaro già al primo colpo d’occhio che si tratta di un busto femminile (la prima scultura) e di una pantera (la seconda scultura)? Tutto questo è spiegabile con il fatto che qualunque oggetto, anche se nero, riflette la maggior parte della luce che riceve.

Per porre rimedio all’assenza di un vero nero, un nero assoluto, la Surrey Nano Systems ha prodotto il Vantablack, sostanza sviluppata e brevettata dalla Nasa a scopi militari con prospettive di impiego nei settori aerospaziali e della difesa. Il nome viene dall’accostamento di VANTA (acronimo di “Vertically Aligned NanoTube Arrays”, in italiano “schiere di nanotubi allineati verticalmente”) e “black”, che ovviamente significa “nero”.

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Due maschere identiche: a farle sembrare completamente differenti è il fatto che mentre una è di metallo, l’altra è rivestita in Vantablack.

La particolarità di questo materiale è che riesce ad assorbire ben il 99,965% della luce che riceve, rendendolo sostanzialmente la cosa più vicina a un buco nero che un essere umano può osservare con i propri occhi (almeno per ora).
L’assenza di luce riflessa rende la superficie degli oggetti rivestiti in Vantablack omogenea e di un nero assoluto, motivo per cui il solo modo di decifrare la trama superficiale e la forma degli oggetti in Vantablack è toccarli con mano.

La creazione del Vantablack è tutt’altro che semplice e richiede delicati processi di alta tecnologia – come illustrato nel video – e dai costi sicuramente non irrisori. Questo spiegherebbe perché inizialmente la sua creazione sia stata spinta esclusivamente da motivi pratici, come la possibilità di ricoprire i satelliti artificiali (diminuendo le interferenze visive nelle osservazioni astronomiche) o di poterla impiegare in campo militare (come ad esempio rendere invisibili agli occhi dei nemici gli Stealth jet da combattimento). Eppure, una volta affinata la produzione del materiale, è stato possibile pensare a diverse tipologie di applicazioni, ad esempio quelle artistiche: immaginate la rivoluzione che si può avere nel mondo dell’arte con l’avvento del nero assoluto!

Peccato che attualmente l’uso del pigmento di Vantablack sia per utilizzo “esclusivo” dello scultore e architetto britannico Anish Kapoor. Kapoor infatti, non appena la Surrey Nano Systems è stata in grado di riprodurre in serie il pigmento, si è messo in contatto con l’azienda per sperimentare il prodotto. Ecco che, per dirla sinteticamente, lo scultore si è garantito il monopolio del nero assoluto in campo artistico. Non è certo una novità che un artista abbia diritti esclusivi su alcune specifiche tonalità, basti pensare alla cosiddetta “ombra di Tiziano”, una miscela di nero e blu di Prussia che era stata presentata sul mercato come il colore segreto dell’antico pittore veneziano e che un tempo era utilizzabile solo dopo l’acquisto (salato) dei diritti. Ma fa storcere la bocca immaginare che nel terzo millennio sia vietato utilizzare su larga scala un prodotto altamente tecnologico.

L’arte incontra la tecnologia: i “ritratti genetici” di Ulric Collette

Le somiglianze tra persone sono spesso frutto di impressioni soggettive: un gesto, un atteggiamento o un’espressione del tutto anonimi possono convincerci che esista una similitudine tra persone anche molto differenti tra loro. Certamente quando si tratta di somiglianze tra parenti (più o meno prossimi) il discorso cambia: diviene quasi scontata la presenza di tratti somatici simili tra persone legate da parentela, che condividono dunque un’elevata percentuale di patrimonio genetico.

A chi di noi non è capitato, almeno una volta nella vita, di sentirsi paragonare alla propria madre, al proprio padre o a qualcuno dei propri parenti? A volte addirittura ci si trova sotto il fuoco incrociato di chi sostiene che siamo uguali al ramo familiare materno, contro coloro che invece ci vedono più simili ai parenti del ramo paterno. In realtà, come già detto, le somiglianze sono spesso negli occhi di chi ci guarda e il fatto di condividere il nostro patrimonio genetico in egual misura con nostro padre e nostra madre (e con i relativi parenti) rende più arduo il compito di capire a chi somigliamo “di più”. Non sarebbe tutto più semplice se ci fosse un modo per mettere a confronto, in modo ravvicinato e oggettivo, il nostro volto con quello dei nostri parenti? Proprio per questo vi parlerò oggi di Ulric Collette.

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Ulric e suo figlio Nathan. Credits to Ulric Collette

Ulric è un fotografo autodidatta, artista e designer canadese che attualmente gestisce uno studio di comunicazione nella regione del Quebec. Il suo nome è divenuto celebre nel mondo grazie ad una sua particolare serie di opere denominata “Portraits génétique – Genetic Portraits”. I suoi “ritratti genetici” altro non sono che dei primi piani in cui i volti di fratelli, sorelle, cugini, genitori e figli, nonni e nipoti vengono più che affiancati, “cuciti” insieme: la metà del viso di una persona viene unita – con photoshop – alla metà complementare del viso di un’altra persona, creando un nuovo volto dalla doppia origine. L’idea è nata da un errore dell’artista che, durante la lavorazione a un altro progetto, ha unito erroneamente il suo volto a quello del figlio Nathan. Il risultato particolare lo ha così entusiasmato da convincerlo a tentare l’esperimento con altri membri della famiglia, estendendolo poi ad altri soggetti.

Nella serie di ritratti si nota come, oltre ogni dubbio soggettivo, ci siano davvero delle somiglianze forti tra membri della stessa famiglia: come si può non rimanere affascinati?

C’è sempre un qualcosa di rassicurante nello scoprire sul volto dei nostri cari qualcosa che siamo abituati a ritrovare sul nostro volto. Questa serie di ritratti è una toccante dimostrazione pratica di quanto la scienza ci ha detto già molto tempo fa: siamo legati ai nostri parenti da qualcosa di più forte del semplice affetto e del nome che portiamo, qualcosa che va oltre i ricordi e le esperienze condivise, qualcosa che riguarda proprio i “mattoncini” su cui è costruito il nostro intero essere, i nostri geni. Un bellissimo esempio di arte fotografica che, sfruttando la tecnologia digitale, riesce a fornire un messaggio positivo. Una novità da apprezzare in un contesto sociale dove photoshop e strumenti simili vengono utilizzati principalmente per distorcere la realtà, adattandola a malsani e negativi ideali estetici.

Per il sito dell’artista: http://ulriccollette.com/

All photos courtesy of ULRIC COLLETTE

“90 Volte Tor Pignattara”, le celebrazioni per i 90 anni del quartiere romano

 

Tor Pignattara compie 90 anni: la notte fra il 17 e il 18 luglio 1927 divenne esecutivo il provvedimento che impose lo spostamento della cinta daziaria comunale oltre via dell’aeroporto di Centocelle, un atto amministrativo che trasformò Tor Pignattara da borgo rurale della campagna romana in “uno dei centri abitati compresi nel comune chiuso” di Roma.
Continuano dunque le iniziative per celebrare i 90 anni del quartiere romano con un calendario ricco di eventi e iniziative organizzate dal Comitato di Quartiere Tor Pignattara, dall’Associazione per Ecomuseo Casilino ad Duas Lauros, dalla Scuola Popolare di Tor Pignattara e dall’Associazione culturale Bianco e Nero (organizzatrice del KarawanFest).
Torpignattara-streetart-areosolAttraverso il progetto “90 Volte Tor Pignattara” si intende costruire un programma annuale di manifestazioni, che sfrutti la diretta partecipazione delle tante realtà sociali e culturali del territorio. Questo spiega la vasta scelta di eventi, che tentano di rispecchiare un’offerta culturale pluralista in cui ogni realtà dà il proprio contributo.
Gli obiettivi che l’iniziativa si prefigge sono la diffusione della conoscenza del patrimonio storico e culturale del territorio fra le comunità che lo abitano e la richiesta formale del riconoscimento di Tor Pignattara come nuovo Rione del Comune di Roma.
In questa edizione, si riprende lo spirito da sempre nomade del festival e si porta alla sua forma più compiuta. Avranno luogo una serie di proiezioni nei cortili del quartiere con delle “escursioni” sotto le stelle. Una novità sarà il gemellaggio con il festival Cinema di Ringhiera di Milano, che permetterà lo scambio di film, ospiti e narrazioni e sarà un modo per condividere su scala nazionale dei progetti che fanno dell’intercultura felice, del contrasto ai pregiudizi e del superamento delle barriere il loro centro di gravità permanente. Compagna di questo viaggio nella straordinaria quotidianità del quartiere sarà un partner storico, Asinitas Onlus, che realizzerà una serie di laboratori e incursioni artistiche nel segno dell’incontro, della condivisione, dello scambio.
Ecco il calendario degli appuntamenti:
  • Il 26 marzo è previsto un doppio appuntamento. La mattina si inizierà con una “Spedizione Pulitiva”, un intervento volontario per le strade del quartiere per fare bella Tor Pignattara in occasione del suo compleanno. Nel pomeriggio, in occasione della Giornata mondiale della Poesia, l’Associazione Cenacolo Letterario Romeno di Roma ha organizzato una giornata di studio su Petrarca, per parlare dell’importanza della poesia come strumento di dialogo interculturale.
  • Il 7 aprile sarà presentato il primo fumetto sulla vita del partigiano Giordano Sangalli, realizzato grazie al laboratorio di Alessio Spataro per la Scuola Popolare di Tor Pignattara.
  • A maggio arriva LABIRINTO II – Festa delle arti organizzato dal Gruppo della Creta. Un evento multidisciplinare che affronterà il tema “i giovani del futuro” con una serie di eventi correlati, diffusi nel territorio, nei quali si affrontano le tematiche del festival e si valorizza il quartiere stesso, le sue strade, i suoi luoghi, i suoi abitanti e la sua storia.
  • A giugno, infine, ci sarà la nuova edizione del Karawan Fest, l’unica festa del cinema che tratta i temi dell’interculturalità eliminando il tono drammatico in favore dell’ironia brillante.

Dalla Finlandia l’artista che ci fa tornare bambini

Grandi occhi azzurri, capelli biondi, sorriso smagliante e fisico scultoreo. Sembrerebbe la descrizione di un modello ingaggiato come nuovo volto di una qualche casa di moda maschile, o di un trend setter, un idolo del social media popolo che ogni giorno infrange i cuori di migliaia di fan infatuate. In realtà, stiamo parlando di Jirka Vinse Jonatan Väätäinen, un Graphic Designer e illustratore finlandese che è riuscito ad ottenere un discreto seguito sui social non grazie al suo bell’aspetto, ma grazie ad al suo progetto artistico “Real Life Disney” – reimagining what Disney characters might look like in real life. Ma partiamo dal principio.

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Ursula da “La sirenetta”, credits to Jirka Vinse Jonatan Väätäinen

Quante volte ci siamo chiesti, noi cresciuti a pane e film d’animazione Disney, quale sarebbe l’aspetto in carne e ossa del nostro protagonista disneyano preferito? Quante volte abbiamo pensato che un attore o un’attrice sarebbero stati perfetti nei panni dei nostri idoli d’infanzia? Certo, in questi anni la Disney sta producendo la rivisitazione in chiave live action dei suoi grandi classici, dandoci la possibilità di vedere i nostri personaggi del cuore nel volto di persone reali. Ma la realtà ha i suoi limiti e persino il migliore dei cast non può – per forza di cose – rispettare puntualmente i tratti estetici creati dalle sapienti mani dei disegnatori nel corso degli anni. L’arte invece, per quanto realistica, non ha confini. Proprio per questo è nato il progetto Real Life Disney – che ad oggi conta la rappresentazione di una quarantina di soggetti , includendo i non disneyani Anastasia e Dimitri – e non poteva che incontrare immediatamente il favore del web.

Tutto iniziò nel 2011, quando Jirka Vinse Jonatan Väätäinen – studente di graphic design alla “Arts University Bournemouth” (nel Regno Unito) – decise di mettersi in gioco, come riferito all’Huffington Post:

«[all’inizio] ho solo pensato di sfidare me stesso e divertirmi con Photoshop per vedere come avrebbe potuto apparire nella vita reale il personaggio di Ursula da “La Sirenetta”. Essendo cresciuto con molti di questi personaggi, il senso di nostalgia ha reso molto affascinante e divertente questo progetto personale, così ho esplorato le varie possibilità e le ho portate avanti. […] Penso che molte persone, come me, siano cresciute con la Disney, rimanendo affascinate nel guardare quei personaggi. La cosa bella dell’attribuirgli visi più realistici è che permetterà alle persone di sentirsi più profondamente connesse ad essi, di vederli come esseri familiari, facilmente riconoscibili, persone a cui svenire dietro (per una cotta, n.d.r.).»

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Tarzan dall’omonimo film d’animazione, credits to Jirka Vinse Jonatan Väätäinen

Tutti i personaggi – creati attraverso le tecniche della composizione digitale, della manipolazione fotografica e della pittura digitale – vedono la loro peculiarità non solo nell’estremo realismo e nell’alto grado di fedeltà verso i disegni originali della Disney, ma anche nella somiglianza che possono vantare con celebrità in carne e ossa, da cui Jirka Vinse “saccheggia” i tratti somatici in favore di un realismo maggiore. Insomma, grazie all’abilità creativa dell’artista finlandese i personaggi disneyani non divengono semplicemente più realistici, ma si fondono letteralmente con il mondo reale, per un risultato che lascia  a bocca aperta.

Ovviamente queste opere non sono che una parte della produzione di Jirka Vinse, che porta avanti numerosi progetti come Graphic Designer, ma è comunque interessante constatare che un giovane creativo è riuscito a far conoscere il suo talento in tutto il mondo grazie all’aiuto dei suoi beniamini d’infanzia. I sogni, a volte, divengono realtà.
Ecco alcuni dei suoi lavori:

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Questi i suoi contatti social.

Il suo sito: http://jirkavinse.com/ 

La sua pagina Facebook: https://www.facebook.com/JirkaVinse/

Il suo profilo Instagram: https://www.instagram.com/jirkavinse/