Di Alessio Boccali

Ph. Cecchetti
“Dove sei coincide con dove vorresti essere?” È questa la domanda che ha chiuso la mia chiacchierata con Lucio Leoni, reduce dall’uscita del suo ultimo lavoro “Dove sei pt.1”. La sua risposta, però, racchiude a pieno il contenuto dell’intera intervista, quindi ve la metto qui prima di lasciarvi al botta e risposta tra due logorroici come me e Lucio: Dove sei non coincide quasi mai con dove vorresti essere; semplicemente perché è difficilissimo rendersi conto di voler essere in un determinato punto in un determinato tempo. Penso che se ci accorgessimo di questo, ci accorgeremmo immediatamente anche di essere felici.
Ciao Lucio! Siamo qui per parlare del tuo nuovo disco “Dove sei pt.1”. Prima domanda, banalissima, come mai questa divisione del tuo progetto in pt.1, uscita ora, e pt.2 che uscirà in autunno?
Ciao Alessio, ti dirò: la questione è semplice. Io ho un approccio molto verboso alla musica, non conosco bene il dono della sintesi (ride, n.d.r.). Nella sezione di registrazione sono nati 16 brani e metterli tutti insieme in un disco sarebbe stato pericoloso, antipatico. Io e i miei collaboratori abbiamo cercato di andare incontro all’ascoltatore per dargli un po’ di respiro per metabolizzare i brani.
Questo “Dove sei”, rigorosamente senza punto interrogativo, ha un legame con i tuoi precedenti dischi “Lorem Ipsum” e “Il Lupo Cattivo”?
Sì, c’è una sorta di fil rouge che li lega. “Lorem Ipsum” ruotava attorno alla comunicazione con tutto ciò che è esterno al sé, mentre “Il Lupo Cattivo” è una riflessione sulla comunicazione interna a noi stessi, all’interno del bosco; ora con questo nuovo lavoro c’è una sintesi di tutte e due le forme di comunicazione, sono uscito dal bosco, ma continuano ad esserci dubbi, bivi e strade tortuose.

Ph. Cecchetti
A proposito di dubbi e di bivi, mi collego subito al primo pezzo in tracklist, ovvero “Il fraintendimento di John Cage”. Ho apprezzato molto non solo la riflessione fatta, appunto, sul dubbio e quindi sulle scelte, ma anche il tuo continuo rivolgere il pensiero al concetto di felicità. Tra il serio e il faceto canti “Guarda che tu sei felice solo quando decidi di esserlo…”; ti chiedo, è più facile essere felici o rendersene conto?
Wow, cacchio che domandone! (ride, n.d.r.) Eh… è più facile essere felici, rendersene conto è più difficile, è un passaggio in più; per rendersi conto della felicità bisogna lasciar cadere un po’ di schermi, un po’ di maschere che ci mettiamo davanti. Probabilmente siamo molto più felici di quanto pensiamo di esserlo.
Sai che ho notato questa cosa anche nel tuo disco… ti ho sentito più ottimista del solito.
Non sei il primo che me lo fa notare e mi incuriosisce molto questa cosa. Ogni volta che termino di scrivere un disco mi rimprovero di essere stato un’altra volta pesante, un’altra volta depresso… e invece anche tu mi dici che questo disco ha uno sguardo ottimista. Ti dirò che mi fa molto piacere e allo stesso tempo mi stupisce. Vedi? Torniamo a quello che dicevamo prima, significa che non me ne rendo conto quando sono felice o comunque sto un attimo meglio (ride, n.d.r.).
Provo a giustificarti la mia teoria sull’ottimismo di “Dove sei pt.1”. Ne “Il sorpasso” feat. C.U.B.A, Cabbal, ad esempio, parli di un progresso che l’arte e la gente comune hanno realizzato, mentre le istituzioni ancora no, oppure non se ne sono accorte. C’è una parte del brano che riassume benissimo questo concetto ed è quando canti “Siamo già arrivati. Che facciamo, bussiamo?”. Il senso della mia constatazione è questo: la società, in quanto insieme di cittadini, sta davvero già avanti rispetto a varie problematiche sociali come l’omofobia o il razzismo, mentre le istituzioni continuano ad enfatizzare l’esistenza di queste problematicità?
Sì, ho la sensazione che tutta una serie di questioni che tuttora sono il fulcro delle discussioni politiche contemporanee e vengono identificati come dei problemi: “il problema dell’immigrazione”, “il problema della sessualità liquida”, ecc. siano in realtà, per fortuna, in grande scala superati. Viviamo fianco a fianco con persone dal colore della pelle diverso dal nostro, con culture e tradizioni differenti, eppure mi sembra che nella realtà dei fatti ce la caviamo benissimo. Sono speranzoso nel pensare che noi questi noiosi paradigmi li abbiamo superati e chi non l’ha ancora fatto, deve svegliarsi. Non esiste il clandestino, siamo tutti parte dello stesso mondo e questa pandemia dovrebbe avercelo ancora una volta dimostrato. Eppure, c’è sempre chi deve parlare, ad esempio, della conversione di Silvia Romano all’Islam, ma di cosa stiamo parlando? Discorsi senza senso. Nonostante questo, te lo ripeto, sarà anche perché la speranza è da sempre una dote peculiare di chi scrive, ma penso che siamo molto più evoluti di quanto si possa pensare.
Siamo più felici, più evoluti di quanto possiamo pensare e ascoltando il tuo brano “San Gennaro”, rilancio con un “anche più spirituali” nella nostra continua ricerca di un senso. Cosa rappresenta per te indagare su te stesso e su ciò che ti circonda, guardare al di là dell’oggettività delle cose?
Bella domanda. Sicuramente la risposta migliore che posso darti è questa: mettermi continuamente in discussione. Quando credi di essere arrivato al punto più “giusto”, quando riesci a darti una definizione, è proprio quello il momento in cui devi fare un passo in più. “Cercare” è un processo ininterrotto; è necessario non stare mai troppo attaccati all’idea che ci si fa di noi stessi e, soprattutto, stare sempre all’ascolto delle opinioni degli altri, del racconto delle vite altrui… la vita non può essere filtrata solo attraverso la tua esperienza; è necessario mettersi in contatto con tutte quelle situazioni diverse dalla propria, che ti danno una visione più ampia della complessità del mondo.
Un altro pezzo che mi ha colpito è “Dedica” con Francesco Di Bella. Ti faccio una premessa: al primo ascolto l’intro mi ha ricordato “A mano a mano” di Rino Gaetano e successivamente mi è piaciuto molto la strizzatina d’occhio a “La crisi” dei Bluvertigo. A parte questo però, quello che mi è piaciuto molto è questo pensiero di aver finalmente raggiunto un’affermazione personale senza però non poter guardare con un briciolo di nostalgia al passato…
Innanzitutto, mi piace la premessa: l’omaggio a Rino non era cercato, ma effettivamente ci sta. Per quanto riguarda la domanda, qui l’ottimismo di cui parlavamo prima scema un po’ perché questo pezzo riguarda il mio rapporto col tempo: una relazione particolarmente confusa. Da una parte, infatti, c’è l’ancorarsi alla memoria e all’esperienza, anche se così si rischia di perdere il senso del presente, dall’altra parte invece c’è una chiave di ottimismo nell’essere fuori pericolo dall’avere tutta la vita davanti. Ti spiego meglio. Quando sei giovane e ti dicono che “hai ancora tutta la vita davanti”, ti senti, sì, pieno di speranza, ma allo stesso tempo sei investito da tante aspettative e da tante responsabilità. Ecco, scoprirmi libero da queste attese, mi fa stare meglio. Della serie “Il più l’ho fatto. Com’è andata, è andata…”

Ph. Cecchetti
Nei tuoi pezzi c’è sempre stata una grandissima attenzione ai testi, ben accordati con la musica. Questa grande ricerca testuale e dunque attenzione al significato delle parole è espressa nel miglior modo dal brano “Atomizzazione”. Ebbene, attraverso il senso di questo brano voglio collegarmi a ciò che potrebbe essere il futuro prossimo della musica live e quindi la possibilità della nascita dei famosi concerti in streaming. Non c’è il rischio, con questa digitalizzazione, di perdere il senso del concerto, ovvero del suo concepirlo non come banale momento di fruizione musicale, ma anche, e soprattutto, come esperienza?
Secondo me questo rischio non c’è perché non c’è la possibilità di trasferire un concerto nel mondo digitale. Un concerto è uno spettacolo dal vivo, è un’esperienza vissuta assieme, un momento di compresenza, di respiro comune, una relazione tra emittente e ricevente e se quelle parti non sono insieme nello stesso luogo non avviene un concerto. Quello che succederà con la digitalizzazione del live, se così vogliamo chiamarla, sarà un qualcosa di altro. Qualsiasi tipo di forma verrà individuata per portare avanti questo discorso, dovrà essere interpretata come un qualcosa di diverso: non ci possiamo permettere di pensare di poter trasferire la forma di spettacolo dal vivo dentro a un altro vettore. Quindi, quello che possiamo fare e che per un certo senso rappresenta per me anche uno stimolo è immaginare e sviluppare altre forme di intrattenimento. Se siamo separati da uno schermo non possiamo parlare di spettacolo dal vivo.
Per finire, una piccola osservazione sul mondo della radio visto che ne hai fatta. Secondo te, questi giorni che abbiamo trascorso in casa e che ci hanno fatto in qualche modo rallentare e lasciato più spazio alla riflessione, al pensare, cambieranno la nostra attitudine ad ascoltare la musica. C’è una speranza di diventare più propensi all’ascolto di un racconto in musica piuttosto che rimanere spesso ascoltatori passivi?
Mi piacerebbe tanto risponderti di sì. Sinceramente, voglio essere speranzoso, ma non lo so se abbiamo imparato a gustarci le sensazioni di un racconto. La sensazione che ho è che comunque sarà il futuro, durante questo lockdown, la maggior parte delle persone ha riscoperto il valore del tempo e ha imparato a viverlo in una maniera diversa. Pensa solo a quanta gente ha passato tante ore in cucina scoprendo che poi cucinare non è così difficile o noioso. Me lo auguro che questo periodo ci abbia fatto riflettere anche sulle modalità di fruizione dell’arte e ci abbia riavvicinato a tutte le sue forme. Sarebbe molto bello.