Emanuele Aloia e quel senso di eterno ricercato nell’Arte

Di Alessio Boccali

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Emanuele Aloia, giovanissimo cantautore torinese, sta vivendo un successo immenso grazie al suo “Il bacio di Klimt”, un brano che parla ai giovani (e non solo) con una semplicità e allo stesso tempo una profondità tali da farlo schizzare in vetta alle più note classifiche musicali nostrane e riuscire a conquistare il disco d’oro. Un successo fortemente aiutato dalla piattaforma social Tik Tok, che ha permesso al pubblico di conoscere un ragazzo, un artista, che cerca di imprimere il suo marchio di fabbrica nella musica attraverso originali riferimenti al mondo della storia dell’arte e della letteratura. Questo il resoconto della nostra piacevole chiacchierata:

Ciao Emanuele, innanzitutto, come stai?

Ciao! Tutto bene, sto ritornando a una lenta normalità; faccio musica, anche se quello non ho mai spesso di farlo, rispondo alle interviste… insomma, si ricomincia.

aloia_il_bacio_di_klimt_640_ori_crop_master__0x0_640x360Il tuo brano “Il bacio di Klimt” sta davvero spopolando. Perché questo titolo e perché, secondo te, il Bacio di Klimt è così iconico?

Il titolo nasce dopo la canzone; quando ho finito di scriverla, ho subito pensato che dovesse chiamarsi così. Questo racchiude a pieno il senso del brano. È difficile dare una risposta, invece, sull’iconicità dell’opera d’arte vera e propria. Nell’arte non c’è mai una spiegazione logica che ti motivi il perché questa arriva alle persone; sicuramente ne “Il bacio” una gran parte del lavoro possiamo dire tranquillamente che la fanno i colori, i quali danno al quadro un senso di eternità, che poi è quello che vorrei trasmettere con il mio brano.

Un altro tema portante del singolo è quello della solitudine; problema sempre di grande attualità e che, ora più che mai, con questo virus e questa digitalizzazione del mondo della scuola, rischia di toccare di più i giovani; sei giovanissimo anche tu e tramite i vari social parli molto con tanti ragazzi; cosa vuoi trasmettergli in questi giorni?

Premetto che il brano nasce prima di tutta questa brutta situazione, tuttavia, sono molto fatalista e questa canzone sembra proprio descrivere un momento come quello dal quale ci stiamo lentamente rialzando. Ciò che mi sento di poter affermare è che le emozioni più negative come la malinconia, o appunto la solitudine, fanno parte della vita e vanno sempre affrontate. Bisogna cercare di essere sempre abbastanza equilibrati: sia nel vivere le gioie che nei momenti di tristezza.

Com’è portare la storia dell’arte, la letteratura…, in un’altra forma d’arte come la musica?

Nonostante abbia solo ventuno anni, ho già vissuto diverse trasformazioni su di me, sul mio essere artista. Non sono un esperto d’arte, sebbene ne sia appassionato; sono un tipo soprattutto curioso e mi affascinano la storia dell’arte, la letteratura – che poi in musica diventa quel cantautorato con il quale sono cresciuto – e sicuramente tutto ciò sta incidendo su quello che è il “marchio di fabbrica” della mia scrittura. Scrivo sicuramente meglio di come facevo qualche anno fa, ma naturalmente c’è sempre tanta strada da fare. Sono arrivato al punto, però, di voler affermare una mia precisa identità per differenziarmi e fare la differenza. Sicuramente, questo è un lavoro lungo che richiederà tanto tempo, ma sono sicuro che avverrà tutto in maniera naturale.

L’influenza della musica sull’ascoltatore è cosa nota, soprattutto per quanto riguarda i più giovani. Tu hai una bella responsabilità perché inviti a percepire la bellezza. Quanto è presente questo pensiero quando scrivi e soprattutto quanto pensi peserà questo nel tuo imminente futuro, visto anche il successo de “Il bacio di Klimt”?

Quando hai un pubblico molto giovane – per quanto con quest’ultimo pezzo l’età media del mio pubblico si sia alzata e questo mi fa molto piacere – la responsabilità è sempre più grande. Devi dosare le parole, devi pensare molto a quello che dici. Sono comunque molto tranquillo perché prendo ispirazione dalla bellezza, come dicevi tu, e quindi è difficile sbagliare. L’unica tensione che posso sentire un po’ più forte in questo momento è proprio quella strettamente collegata al successo de “Il bacio di Klimt”. Certamente, ci sarà un determinato tipo di attenzione sulla mia prossima uscita, ma questa oltre che una tensione è anche, e soprattutto, uno stimolo. Sono un tipo molto competitivo e ritengo gli stimoli esterni molto utili. Per quanto riguarda il mio invito a percepire la bellezza nella cultura, che citi nella domanda, mi fa sempre molto piacere quando ricevo dei messaggi da parte di teenager che mi ringraziano per averli fatti incuriosire a quel quadro piuttosto che a quell’autore letterario…

Hai poco più di vent’anni eppure hai comunque una buona gavetta alle spalle…

Scrivo da quando avevo tredici anni e a quattordici avevo già aperto un canale YouTube dove pubblicavo i miei inediti – naturalmente discutibili (ride. n.d.r) -, non ho mai smesso di crederci.

emanuele-aloia-980x551A proposito di YouTube, hai avuto grande successo “social” grazie alla piattaforma Tik Tok; possiamo considerare quest’app come una sorta di nuovo YouTube, naturalmente con modalità estremamente differenti, che può fungere da rampa di lancio per gli emergenti?

Assolutamente sì. Anche se son diversi i tempi di fruizione: su YouTube senti il pezzo intero, su Tik Tok ti entrano in testa delle frasi, degli incisi. L’importante è far capire a tutti è che Tik Tok è solo un mezzo; se un pezzo esplode a caso su quella piattaforma, ma non ha potenzialità per resistere altrove, si ferma là. Tik Tok può lanciarti, ma se poi la tua musica non ha un certo peso specifico, non vai da nessuna parte. Le persone sono molto pigre sui social, se quei pochi secondi di canzone ascoltata in un tik tok ti invogliano ad interessarti di più a quell’artista, significa che qualcosa di quel pezzo gli è rimasto dentro.

Un altro tuo brano che ho apprezzato molto è “Sempre”, uscito anche lui quest’anno, molto interessante anche il video con un altro omaggio letterario…

Son molto contento di parlare di “Sempre” perché quello è un brano molto bello, che però va capito. In un certo senso c’è un filo che lega le mie canzoni più conosciute e lo possiamo racchiudere nel senso di eternità, di cui abbiamo parlato anche prima. “Sempre” non è autobiografica e proprio per il peso che ha questa parola, a ventuno anni non ho scelto di fare un video ufficiale con due ragazzi mano nella mano a rappresentare una promessa d’amore, una scena vista e rivista. Per il videoclip ho scelto invece di prendere in prestito i protagonisti di una saga cinematografica come Harry Potter, che conoscono praticamente tutti, e in particolare provare a raccontare, con la mia canzone, l’amore di Piton per la madre di Harry: un sentimento più forte di tutto, che per proteggere il figlio della donna amata, arriva ad influenzare in negativo il pensiero che le persone hanno di lui. Un amore che si riflette perfettamente nel concetto di eterno.

Progetti futuri? Un album? Hai già le idee chiare su quale sarà il “colore”, il mood dominante di quest’album?

Di album pronti ne avrei veramente tanti per quanto scrivo (ride, n.d.r.). Il mio percorso finora è sempre andato avanti di singolo in singolo, ma “Il bacio di Klimt” ha dato sicuramente un’accelerata che ha portato me e chi mi segue a pensare decisamente a un album. L’obiettivo – non semplice sicuramente – è quello di portare un qualcosa di originale e per farlo c’è bisogno di un po’ di tempo. Uscirà quando, da perfezionista quale sono, sarò convinto al 100% di aver impresso il mio marchio di fabbrica sul lavoro che andrò a presentare.

Galeffi e quel giusto compromesso tra pancia e testa

di Chiara Zaccagnino
GALEFFI_foto di Sara Pellegrino x Mine_b

ph. Sara Pellegrino x Mine_b

Abbiamo incontrato Galeffi a un anno dalla fine del fortunato tour di “Scudetto”, il disco che ha segnato il successo del suo esordio e che lo ha portato su più di 70 palchi in tutta Italia, dal MiAmi Festival di Milano al concertone del Primo Maggio di Roma. Da poco il cantautore romano ha annunciato l’uscita, in primavera, del suo secondo lavoro e lo ha fatto con tre nuovi singoli che anticipano tutta la sua voglia di sperimentare e stupire, anche questa volta.

Ciao Marco, prima di tutto…come stai? Com’è stato questo ritorno?

Ciao Chiara! Guarda, da una parte non vedevo l’ora, perché comunque l’attesa è sempre un po’ una rottura, soprattutto quando hai lavorato per un anno alle nuove canzoni e non vedi l’ora che la gente le possa ascoltare. Quindi, meno male che sta ricominciando tutto quanto!

Ti sei preso un anno di pausa, che ormai è considerato anche un periodo abbastanza lungo, per scrivere il tuo nuovo disco. Com’è stato lavorare a questo nuovo progetto rispetto al primo?

È stato diverso, perché con il primo non hai la lucidità per capire che forse quel disco ha dei difetti: ti sembra tutto meraviglioso perché è il primo disco che fai uscire e per te è anche l’ultimo. Questa volta invece sapevo di dover fare un “secondo disco”, che la gente aspettava delle canzoni. Poi, da persona un po’ perfezionista, volevo fare una roba migliore di “Scudetto”, quindi c’erano delle ansie, indubbiamente. Però funziono meglio nei momenti di stress, nei momenti di relax non rendo…in tutte le cose, non solo come Galeffi ma proprio come Marco! Alla fine di tutto, devo dire che sono molto contento del lavoro perciò non vedo l’ora che esca il disco e basta!

È dall’uscita dei primi tre singoli successivi a “Scudetto” che la tua produzione si discosta un po’ da ciò che ti ha fatto conoscere e amare, fin da subito, dal pubblico. Gli ultimi tre, che saranno contenuti nell’album, sono un’ulteriore conferma di una strada diversa. Sembra che il cambiamento non ti spaventi ma, anzi, che tu gli stia andando incontro con molto entusiasmo, è così?

Sì, hai detto bene, volevo sperimentare un sacco in questo disco: volevo testare, volevo vedere come potessi rendere io su altri generi e su altri mood. Perché rimanere sempre troppo fedeli a stessi non era una cosa che mi attirava; c’è chi lo fa, ma io volevo rischiarmela un pochetto. Se rifaccio sempre la stessa cosa sono il primo a non crederci più, sono una persona molto curiosa quindi chiaramente a ripetere la stessa cosa, l’avrei fatta peggio. Era proprio, ovvio per me, fare una cosa diversa.

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È anche passato un po’ di tempo da quando hai scritto i tuoi primi pezzi, un’evoluzione è naturale.

Sicuramente: diventi un po’ più bravo, ma non sempre diventando più esperto rendi di più. Certe volte il sapere troppo, in realtà, è una censura: non sapere le cose ti dà più libertà creativa, perché le poche cose che sai le ottimizzi al massimo, mentre, se ne sai tante, sintetizzarle diventa una roba molto più cerebrale…e una cosa più è cerebrale, meno arriva. Bisogna sempre trovare il giusto compromesso tra pancia e testa.

Parliamo di questi tre singoli, da poco usciti: prodotti dai Mamakass, accompagnati dai video di Ground’s Oranges e Luther Blisset. Com’è stato collaborare con loro?

I Ground’s Oranges li avevo contattati io perché sono un loro fan. Mi piacciono molto e quindi non li ho voluti influenzare perché mi fidavo della loro fantasia. Quando mi hanno proposto questa cosa anche un po’ strana, ho detto “Cavolo dai è forte, è una roba che non si vede tutti i giorni”. Ecco, questo dimostra che oltre ad essere un disco coraggioso, anche le scelte fatte non volevano accontentare nessuno, anzi, non dico che sono state fatte per scioccare, ma almeno per non risultare neutre.

Con “America”, invece, hai partecipato in prima persona anche alla sceneggiatura del video.

Sì, ero a casa di un mio amico a Milano e, parlando degli step che avrei dovuto affrontare, confesso che la sceneggiatura che mi avevano proposto per il nuovo video non mi convinceva e che avrei voluto scriverla io. Così, partendo da quello che avevo immaginato io nella canzone, siamo arrivati alla conclusione che il video perfetto sarebbe stato quello che poi è uscito, ispirato a LaLaLand: quando ho avuto quest’idea l’ho comunicata alla mia equipe, loro erano entusiasti e l’abbiamo girato.

Mi sembra di capire che “America” sia una canzone abbastanza importante per te.

“America” è una canzone importante, ma non solo per me. Mi auguro, anzi ne sono sicuro, che tra vent’anni sarà uno dei capisaldi della mia carriera.

Dunque, ti sei occupato anche delle immagini che la accompagnavano: quanto conta per te questo aspetto in generale?

In generale non troppo, mi piacciono le canzoni e i video mi fanno perdere un po’ la concentrazione. Ovviamente, quando poi fai le cose per te, un’importanza cerchi di dargliela e in qualche modo ci sono stato dietro. Però la canzone è più importante. Per questo non amo Spotify: perché, pur essendo intelligente come concetto di base, ovvero mettere la musica prima di tutto, è diventato troppo “usa e getta”. Ci vorrebbe più spiritualità nell’approcciare la musica ma chiaramente non è da tutti.

Tornando alle canzoni, le prime due sono molto diverse tra loro: l’una leggera, rock, sguaiata, l’altra quasi jazz, più raffinata e che risente di influenze importanti. Quindi, cosa dobbiamo aspettarci dall’album in arrivo?

Sì, “Cercasi amore” e “America” sono un po’ due poli opposti del disco, che è proprio ciò che sta a metà strada, ha più facce. Queste due canzoni sono state scelte come prime consapevolmente: nel disco ci saranno anche canzoni che ricordano il vecchio Galeffi, però ci interessava che la gente, a quello, ci arrivasse da sola. Abbiamo voluto far vedere il lato che non ci si aspettava, un po’ per creare del panico, un po’ per complicarci la vita…quindi va bene così. È una scelta fatta per stuzzicare e pure per dare fastidio: voi vi aspettate quella canzone, noi ve ne facciamo sentire un’altra!

Infatti nell’ultimo singolo, “Dove non batte il sole”, mi è sembrato non solo di scorgere il nuovo Galeffi, ma anche, soprattutto, di ritrovare il mood e le tematiche che ti contraddistinguono. In questo caso, cos’è il “freddo” che senti nella canzone?

Beh, penso che a tutti capitino quelle giornate in cui ti guardi dentro e non vedi niente…alla fine parla di quello. Poi la canzone era nata anche un po’ per scherzo, perché io e Gigi (amico e chitarrista, n.d.r.) lo diciamo sempre, che la vita non è facile e che “domani andrà soltanto peggio”. Da questo concetto, quasi scherzando, è uscita la prima parte della canzone: rileggendola mi piaceva e ho continuato.

Il ritornello prosegue dicendo “Non resteremo da soli nel letto, questa notte no”: allora una soluzione c’è, per non morire di freddo?

La speranza è un concetto importante nella vita: alla fine, questa canzone elenca in maniera poetica i problemi di tutti i ragazzi che, se hanno un minimo di sensibilità, non possono non avere un po’ di inquietudine nel vivere, nel farsi delle domande. La speranza è fondamentale, se no uno non si alza dal letto. Perciò mi piaceva chiudere il ritornello della canzone con “io una cosa la so, stanotte non moriamo di freddo”. Abbracciamoci, facciamo l’amore e poi, chi vivrà vedrà. In realtà è anche una sorta di carpe diem, perché è inutile che ci fasciamo troppo la testa, pensiamo a vivere le cose, che la vita è una e prima o poi tocca a tutti: godiamoci la vita, anche se è dura.

Ultime battute: sei pronto a tornare sui palchi?

Sì, sono pronto! A livello pratico no, perché dobbiamo ancora fare le prove…ma con la testa sì, perché ‘ste canzoni ora le vorrei anche suonare!

Sicuramente tornerai anche ai festival, che sono un’occasione di confronto con tanti altri artisti: c’è qualcuno di questi che stimi e che ti ispira particolarmente?

Più di tutti Andrea Laszlo de Simone, è la mia fissa dell’anno: lo ritengo essere davvero un campione, che meriterebbe molto di più e sono convinto che in altre nazioni europee avrebbe dieci volte il successo che ha qui. L’Italia purtroppo è un paese molto fanatico a livello musicale, come nel calcio. Poi chiaramente c’è Cesare Cremonini che è sempre un compagno di viaggio: è l’unico artista italiano che non ho mai lasciato da quando l’ho scoperto con “…Squérez?” che ero piccolino, andavo alle elementari. È dal primo disco da solista che vado a sentirlo live.

E anche lui ha quest’abitudine di sparire per un po’ e non tornare mai uguale a sé stesso.

Sì, infatti è per quello che lui è un esempio, non ha mai fatto un disco uguale a quello di prima, ha sempre rischiato, ha sempre fatto roba di qualità. Non mi piacciono gli artisti che fanno un disco ogni anno: non mi dici niente, non mi dici la verità. Puoi essere anche uno che scrive molto, quello è soggettivo, però al di là di quanto tu possa scrivere, se devi fare un lavoro certosino ti serve un po’ di tempo, anche per accumulare le idee, metabolizzare i concetti, i pensieri. Un disco ogni anno fa male alla musica.

Ancora a proposito di colleghi: ultimamente molti artisti si uniscono per collaborazioni e featuring, ma a te finora non è successo. Hai in programma qualcosa del genere?

Secondo me queste cose a volte accadono per motivi di forza maggiore; altre volte, invece, due artisti si conoscono, si crea un’amicizia, nasce fuori una canzone ed è tutto naturale. Per quanto riguarda la prima opzione, quando mi è stata presentata, ho sempre rifiutato perché le canzoni sono molto intime, condividerle con uno che non conosci non porta a nulla. Sto aspettando che nasca una collaborazione in maniera molto naturale e magica: qualora accadesse, volentieri. Però non le puoi forzare queste cose, no? Quindi vediamo, sicuramente in futuro capiterà…però, insomma, per ora va bene anche da solo!

Bucha e il suo mondo in bilico tra cantautorato e rap

Di Manuel Saad

CC2A9814Il progetto del giovane romano Giorgio Di Mario, in arte Bucha, si è concretizzato con l’uscita del suo primo album “Alla fine volevo solo pagare una cena a mia madre”: nove brani che buttano fuori tutto quello che un 23enne nasconde dentro di sé.
Lo abbiamo intervistato per farci raccontare un po’ del suo mondo.

“Alla fine volevo solo pagare una cena a mia madre”. Com’è nata l’idea di chiamare così il tuo primo album?

Da un’intervista come questa. Era una risposta che ho dato al mio interlocutore e mi sembrava racchiudesse dentro tutto quello che volevo esprimere con questo progetto. È un titolo fuori dai canoni di marketing, difficile da ricordare ma che allo stesso tempo incuriosisce.

“Rotazione”, “Traslazione” e “Rivoluzione” sono tre singoli con tre titoli forti. Cos’hanno in comune questi tre pezzi e cosa li differenzia totalmente?

Nascono in periodi diversi, hanno sonorità molto diverse, ma sono accomunate dall’attesa di un treno, da una donna e da un cocktail pieno di ghiaccio. Fanno parte di una piccola demo, chiamata “Anni-Luce”, che aveva lo scopo di sancire la distanza tra me e la scena attuale. “Rivoluzione” e “Rotazione” sono entrate nel disco, a differenza di “Traslazione” che è rimasta fuori, ma sono legato in particolar modo a quel brano e tutti i live vengono aperti da quella canzone.

Molte volte, un brano mette a nudo l’artista. Qual è stato il brano, in quest’album, con cui hai avuto più difficoltà nella scrittura, da questo punto di vista?

Forse “Capodoglio 216” visto che ci ho messo un paio di mesi a chiuderlo. È un pezzo molto profondo e personale, e trovare le parole giuste non è stato semplice, ma a livello di scrittura è sicuramente tra i migliori del disco.

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Come ti sei avvicinato alla musica ed in particolare al mondo del rap?

Sono nato con la radio accesa. Da bambino, in casa mia e in quella dei miei nonni con cui sono cresciuto, ascoltavo solo cantautorato italiano. Durante il periodo delle medie ho ascoltato molto rock, punk e metal, per poi arrivare al rap. È successo completamente a caso, e pian piano ho capito che il rap riusciva a rendere meglio i concetti e le tematiche che scrivevo.

Cosa vuol dire fare rap in una città come Roma?

Provare ad emergere in un mare di squali

In un’intervista, hai detto una cosa molto importante: “È importante capire il perché una persona dovrebbe apprezzare la vostra arte. Se hai qualcosa da dire, la gente se ne accorge.”
A questo punto ti chiedo cosa contraddistingue Bucha. Cosa ha da dire?

Bisognerebbe chiederlo a chi mi ascolta. Io mi limito a cercare di migliorare ogni giorno la mia scrittura, di arrivare meglio al punto, di provare a parlare anche di quello che mi fa più male, di mettermi il più a nudo possibile senza paura delle conseguenze. Il resto sta al pubblico e di come assimila ciò che scrivo.

 

 

 

Cinque anni senza Lucio Dalla, il poeta che ci ha ricordato la bellezza del cantautorato

lucio-dalla-angelo_650x300“Se io fossi un angelo chissà cosa farei…” è una delle più belle frasi di uno dei capolavori di un cantautore geniale ed eclettico, che ci ha lasciato cinque anni fa: Lucio Dalla. A riascoltarlo oggi questo estratto, tratto da una canzone, tutta meravigliosa, intitolata per l’appunto “Se io fossi un angelo”, fa sempre un po’ sorridere; chissà, infatti, cosa stara combinando in cielo un cantautore unico come Dalla.

Di certo avrà già tenuto migliaia di concerti facendo innamorare intere “curve” di angeli; avrà poi messo su una scuola per i musicisti che ci hanno lasciato troppo presto e starà insegnando loro come toccare le corde dell’anima, quell’anima che canzoni, come quella sopracitata, colpiscono ancora oggi.

In questi cinque anni sono stati tanti gli omaggi che la musica italiana ha riservato al cantautore bolognese ed anche quest’anno, soprattutto la sua Bologna, lo ricorderà con grande affetto. Ringraziamenti dovuti ad un vero e proprio maestro del cantautorato, che, oltre a scrivere pezzi che resteranno per sempre nella storia della musica, ha permesso in primis a quei ragazzi della “scuola Dalla”, come Samuele Bersani, Luca Carboni o Gaetano Curreri tanto per citarne alcuni, di lasciare un segno tangibile nel nostro panorama musicale e, in secundis, ha regalato a tantissimi appassionati di musica l’opportunità di sognare, e magari intraprendere, il duro cammino della musica italiana moderna.

“Se io fossi un angelo… è chiaro che volerei. Zingaro, libero, tutto il mondo girerei…” e, questo lo aggiungo io, “con l’arte della mia musica ad emozionarvi continuerei…”.

Grazie Lucio!

“Made in Italy”, il ritorno concept di Luciano Ligabue

20161012125036_liga“Made in Italy”, il nuovo album di inediti di Luciano Ligabue, ha esordito al primo posto delle classifiche dei dischi, cd e vinile più venduti della settimana TOP OF THE MUSIC FIMI/GFK.
Nulla di cui stupirci visto che stiamo parlando del Liga, uno dei cantautori italiani che ha venduto di più negli ultimi 20 anni.
Eppure il cantautore stesso ha ammesso di aver compiuto un azzardo con questo suo nuovo disco.
Sì, perché “Made in Italy” è un concept album – il primo di Liga – e in Italia i concept album non è che abbiano mai riscosso grande successo.
«È una dichiarazione d’amore “frustrato” verso il mio Paese raccontata attraverso la storia di un personaggio (Riko)…Canzoni che godono di una vita propria, ma che in quel contesto, tutte insieme, raccontano la storia di un antieroe» rivendica infatti Ligabue e queste sue parole sono facilmente verificabili fin dal primo ascolto.
Riko è uno di quei ragazzetti figlio di “Certe notti” di qualche anno fa, solo che ora è cresciuto, anzi invecchiato e si ritrova a fare i conti con una società bugiarda, che non ha mantenuto le promesse che gli aveva fatto. Riko un po’ si chiude in sé stesso rimuginando sui vecchi sogni (“Ho fatto in tempo ad avere un futuro”) ed un po’ reagisce, mettendo però in pericolo sé e tutto ciò che lo circonda.Si ritrova così a bestemmiare sulle sue relazioni sociali e familiari (“E’ venerdì, non rompetemi i coglioni”, “Vittime e complici”) ed arriva addirittura ad essere un esempio negativo sfruttato e schernito dai media (“I miei quindici minuti”, “Apperò”).
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Liga con questo disco sembra parlare soprattutto alla sua generazione e non solo ai giovani e questa è un’altra grandissima novità.
Dal punto di vista musicale invece resta l’attenzione preponderante per le ballad, spesso più pop che rock, anche se risultano degni di nota anche i richiami al rock un po’ più strong di “Èvenerdì, non rompetemi i coglioni” e “La vita facile” e, piacevole sorpresa, l’uso molto ampio dei fiati.
Insomma, questo “Made In Italy” è un disco che piacerà sicuramente ai fan storici del Liga, ma che potrebbe accaparrare anche nuove orecchie soprattutto quelle un po’ più adulte.
Le occasioni per ascoltare “Made in Italy” live arriveranno nel 2017 con il “MADE IN ITALY – PALASPORT 2017” che passerà per Roma (3-4-6-7 febbraio), Reggio Calabria (20-21 febbraio), Perugia (6-7 marzo), Firenze (28-29 marzo), Milano (4-5 aprile), Bologna (7-8 aprile) e tante altre città italiane (tutti i dettagli su ligabue.com), allora sì che il Liga si renderà conto di aver sfornato un altro successo.
GENERE: PopRock, Cantautorato
DATA DI USCITA: 18.11.16
LABEL: Zoo Aperto
ARTISTA: Luciano Ligabue
TITOLO: Made in Italy
TRACCE: 14
VOTO: 3.5 / 5