MALEDIZIONE INDIE

Di Alessio Boccali

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Dapprima indie e basta, poi indie pop e sul finire ITPOP prima di essere assimilato al pop a tutti gli effetti. Lo abbiamo chiamato in tutti i modi questo “genere musicale” che negli ultimi anni ha riempito le nostre playlist e le nostre orecchie.

Questa tendenza musicale ha vissuto una parabola ascendente tale da far dibattere molto: si son aperti talk sull’indie, improvvisati dibattiti e, addirittura, scritti diversi libri. Ora però che succede? siamo giunti al “canto del cigno”? È notizia di poche ora fa lo scioglimento dei Canova, band milanese di casa MACISTE DISCHI; la notizia ha fatto di certo molto rumore, come accaduto nemmeno un anno fa con l’allontamento dai thegiornalisti e il conseguente esordio da solista di Tommaso Paradiso. Non parliamo poi della separazione professionale tra Carl Brave e Franco126, notizia che è passata forse più in sordina perché mai ufficialmente annunciata con post et similia, ma che ha portato dispiacere a non pochi ascoltatori. Insomma, tanti indizi fanno una prova, l’indie nostrano, per come avevamo imparato a conoscerlo negli ultimi anni, dunque nella sua accezione più pop e mainstream, sembra proprio agli sgoccioli.

Qualcuno naturalmente resiste (o ci lascia con la speranza che sia così): son certo che Calcutta viva da eremita in qualche campagna e stia preparando un ritorno in grande stile, Gazzelle ha rispolverato dal nostro armadio dei ricordi gli Zero Assoluto e ci ha cantato in un singolo nemmeno malaccio, COEZ è vivo, ogni tanto caccia fuori un feat. in cui la sua presenza è forte, poi torna sotto la sabbia, forse a lavorare a un nuovo progetto, altri come Motta o Brunori SAS – tanto per citarne due, ma di esempi da fare ce ne sarebbero un po’ – non hanno mai del tutto virato verso il mainstream – e per questo ho titubato prima di inserirli qui – conservando il loro alone di mistero e, forse proprio grazie a questa scelta, si son salvati dalla maledizione dell’ITPOP. Per i sopracitati il mondo non è mica finito, sia ben inteso, si è aperta forse una nuova pagina di vita, si è compiuta una scelta definitiva tra mainstream e mondo indipendente abbandonando quello che probabilmente era diventato un limbo troppo stretto e nel quale per varie esigenze – comprese quelle artistiche naturalmente, ma non solo – era impossibile rimanere.

Vasco Brondi, il quale anche lui già nel 2018 ha chiuso il percorso artistico de Le Luci della Centrale Elettrica per “ripartire in altre direzioni” (parole sue), ha pubblicato un libro praticamente undici anni fa, “Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero”, del quale, tralasciano il contenuto non in tema, mi piace prendere in prestito proprio il titolo per poi parafrasarlo così: “Cosa racconteremo di questo cazzo di indie”. Non voglio nemmeno togliere la parolaccia perché dà più enfasi a quello che è stato un fenomeno del quale probabilmente avremo da parlare ancora a lungo. Toccherà capire se a posteriori o dopo una nuova rinascita.

P.S. Tutto ebbe inizio, probabilmente, da Calcutta, ergo finché c’è Calcutta c’è speranza.

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ph. Credit Rolling Stone Italia

FRENETIK

Frenetik e l’artigianato musicale.

di Manuel Saad

Daniele Mungai, in arte Frenetik, del duo Frenetik&Orang3, è un produttore romano, polistrumentista e da poco è diventato il direttore artistico dell’etichetta Asian Fake che sta prendendo piede nel panorama discografico italiano.
Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per farci raccontare cosa c’è dietro le quinte.

Cosa vuol dire essere produttori e come ci si diventa?

Per noi, essere un produttore è come essere un sarto. Mettere le tue capacità musicali a servizio di un progetto, per farlo sembrare più bello possibile. Questa è, sicuramente, la sfida che ti porta avanti.
Io nasco come batterista e suono la chitarra da quando sono piccolo. Suonare uno strumento non mi ha mai dato soddisfazione rispetto ad un qualcosa di finito e arrangiato. La voglia di sentire un prodotto creato da me, o con Orang3, è sempre stata più forte di tutto. È un po’ come chi modella la creta: un artigiano.

Attraverso Internet, tutti possono cimentarsi in svariati settori. In campo musicale, ti è capitato di riscontrare una sorta di “prepotenza” da parte di chi non ha un background corposo?

Succede molto spesso questa cosa. Molto probabilmente è successo anche a me, sai?
È giusto accorgersene, perché quando vedi che qualcuno fa qualcosa molto meglio di te e pensi di essere “arrivato”, ritorni con i piedi per terra. Se continui tutta la vita a fare finta di saper fare una cosa, arrivi al punto in cui la gente se ne accorge.

Cosa può farti capire, realmente, che stai andando nella giusta direzione?

Diciamo che una connessione tra riscontri oggettivi e uno studio continuo di quello che si fa, in generale nella vita, deve esserci. In questo mondo, oltre che essere umile, devi sapere cosa sai fare, cosa non sai fare e cosa sei bravo a delegare.
In ambito musicale, questa “prepotenza” di cui parli c’è eccome.
Prima per fare un disco, se non avevi un certo numero di soldi per poter andare in uno studio, non potevi fare nulla. Ora con un computer, una scheda audio e un microfono puoi registrartelo direttamente a casa.

Intervista Frenetik 1

Insieme ad Orang3, vi siete espansi a macchia d’olio nella scena rap romana e non, per arrivare poi a Sanremo con un pezzo “rivoluzionario”, se vogliamo.

Rivoluzionario se vogliamo esagerare, ma sicuramente non è stata la classica sanremata.
Solitamente nel periodo di produzioni per il festival c’è sempre la rincorsa alla hit sanremese, ma in questo caso, il direttore artistico ha scelto un brano che esisteva già da un anno e mezzo e questo ci ha reso molto felici.

Com’è nata “Rolls Royce”?

Circa un paio di anni fa. Prendemmo una villa al Circeo in cui abbiamo passato circa due mesi, allestendo due, tre studi, per vivere un’esperienza immersiva di scrittura e composizione.
“Rolls Royce” è una sorta di inno a ciò che si ambisce di più nella vita, “una rivalsa sociale” di ragazzi che provengono da quartieri disagiati e che si ritrovano a fare soldi grazie al loro talento.

Il vostro album, “Zerosei”, è un gioco inverso: gli artisti si sono adattati alle vostre regole.

Sì, in un certo senso, l’ago della bilancia l’abbiamo fatto pendere verso di noi. Ci piace molto fare musica e quando ti ritrovi a farla con i tuoi amici, riesci a condividere tutti quei momenti magici che poi ti portano a bei risultati. Siamo molto di più per una session in studio, stare insieme e capire insieme.  La musica è condivisione, no?

Tu ed Orang3 state lavorando a qualcosa?

Ci siamo fermati un attimo a livello di produzioni. Stiamo lavorando in studio a tante cose. C’è stato uno “Zerosei”, ci sarà sicuramente un seguito.

Caro Coez, grazie per tutto il casino fatto all’Ex Dogana!

19578429_10211962309566563_1619308661_n“Caro Silvano, t’ho conosciuto che eravamo quattro gatti e mo’ semo in quattromila”

Perdonerete questo esordio in vernacolo, ma è la prima cosa che ho pensato quando ieri sera ho visto il “tutto esaurito” registrato dal concerto di Silvano Albanese aka Coez all’Ex Dogana di Roma per il Viteculture Festival.

Di acqua ne è passata dai tempi de Il Circolo Vizioso prima e dei Brokenspeakers poi e l’affetto del pubblico per il ragazzo nato a Nocera Inferiore, ma da sempre romano, è cresciuto esponenzialmente.

Una carriera partita nel nome dell’hip hop e del rap “puro” ed ora sempre più influenzata dal pop, che sta finalmente dando a Coez tante e meritate soddisfazioni . Soddisfazioni che arrivano anche dai cosiddetti addetti ai lavori, e che si sono concretizzate, proprio ieri sera, nel disco d’oro per il singolo “Faccio un casino” ritirato sul palco insieme a Niccolò Contessa.

Ma concentriamoci sul concerto. Ieri sera all’Ex Dogana si è esibito un Coez davvero in grandissima forma, che ha ripercorso tutte le sue tappe più importanti da solista ed ha duettato con gli amici e colleghi Gemello, Gemitaiz, Niccolò Contessa e Lucci in un clima di festa incredibile. Da “Ali Sporche” a “Faccio un casino”, passando per “Hangover”, “Forever Alone”, “Lontana da me” e tante altre, l’ex Brokenspeakers ha sfoderato tutto il suo repertorio in un concerto che di certo resterà a lungo negli occhi e nelle orecchie del pubblico, che non ha mai smesso di cantare.

Insomma, quello andato in scena ieri sera è stato un vero e proprio atto d’amore tra Coez e il pubblico, che, recuperando il dialetto messo in grande spolvero in apertura e parafrasando la hit del rapper, potremmo riassumere così: “Amiamoci e famo un casino!”