Di Manuel Saad

ph. Joe Messina
“Fra la melodia più sublime e la libertà da tutte le melodie, c’è un abisso che ogni musicista serio deve attraversare. Per me, questa è stata la direttiva alla base del progetto. Una delle nostre premesse è stata quella di non basare il lavoro su quello che già apparteneva al nostro lessico musicale, ma di usare quest’occasione per aprirci ad orizzonti che non appartenevano necessariamente a nessuno dei due” – Corrado Rustici.
Abbiamo fatto una splendida chiacchierata con Corrado Rustici, noto chitarrista e produttore musicale di fama internazionale. Ha lavorato con Herbie Hancock, George Benson, Elton John, Aretha Franklin, Whitney Houston, Zucchero, Andrea Bocelli, De Gregori, etc. Un curriculum ricco e pregno di cultura musicale importante che ha deciso, insieme ad un altro chitarrista d’eccezione, Peppino D’Agostino, entrato nel 2017 nella classifica dei 50 chitarristi più importanti mai esistiti, di forgiare un album strumentale dove la riflessione introspettiva incontra la sperimentazione.
“FOR THE BEAUTY OF THIS WICKED WORLD”. Quale aspetto della malvagità e della
bellezza avete voluto “sonorizzare” con quest’album?
Bella domanda. Diciamo che non c’era uno scopo in particolare di sonorizzare malvagità e bellezza. Il titolo dell’album viene dal testo di una canzone venuta fuori spontaneamente, che trattava di un qualcosa di molto importante.
Le sonorità del disco sono state caratterizzate, piuttosto, da una premessa che avevamo fatto io e Peppino D’Agostino, ovvero quella di non fare un album da chitarristi. Non ci interessava minimamente far sentire quanto siamo bravi o di lasciare che la nostra tecnica chitarristica influenzasse in maniera preponderante la composizione. Questa cosa ha sicuramente creato il contesto sonoro dell’album e abbiamo seguito le composizioni genuine, che più ci piacevano. A me interessa sempre integrare suoni contemporanei con quello che già c’è arrivando ad un qualcosa che io definisco “trans-moderno”: un qualcosa che non rifiuta ciò sta succedendo. Per me la chitarra sta passando un periodo di oscurità, poiché è uno strumento che è stato relegato ad un
suono inventato 60 anni fa e che per quanto mi riguarda non è più rilevante. Il mio sforzo sta nel far avere alla chitarra nuove voci, in un contesto più contemporaneo.
Mi stavi dicendo che c’è stato un evento che ha portato la nascita di questo disco.
Io e Peppino ci conosciamo da più di vent’anni e anche lui, come me, abita qui a San Francisco. Da tanto tempo avevamo deciso di fare qualcosa insieme. Quattro anni fa, Peppino mi regalò un suo album, “Penumbra”, e all’interno di quest’album c’era una canzone che aveva dedicato a questo grandissimo chitarrista che si chiama Sergìo Assad. A me piacque molto il brano, ma da produttore ho sentito delle cose che potevo cambiare. Ho preso alcune parti di chitarra e ho costruito un brano con melodia e testo. Rimase così entusiasta del risultato da far accendere la scintilla per la scrittura di quest’album. Andando avanti, scrivemmo insieme “For The Beauty of this
Wicked World”, un brano partito da un sogno che avevo fatto, in cui mi immedesimai in una donna migrante. Come nel mediterraneo, anche qui in California c’è una grande crisi di migranti provenienti dal Sud America. Mi venne, quindi, in mente questa donna che voleva andar via da un posto che lei amava, la sua terra, per riuscire letteralmente a sopravvivere.Il testo partì da questo: il riflesso della bellezza e della malvagità di questo mondo. Siamo una specie che ancora non ha imparato a vivere come dovrebbe, che sta massacrando questo pianeta. Tendiamo a circondarci di cose per proteggerci dalla vita stessa.
C’è un grave problema di empatia al giorno d’oggi e un’arroganza nel pensare di
conoscere tutto quando in realtà non sappiamo chi siamo.
Esattamente. La riflessione chiave è “chi siamo?”. Quest’arroganza di cui parli viene proprio dalla paura di cose che possono accaderci e dal desiderio di ripetere episodi positivi che ci sono successi in passato. Ma il piacere è un’oasi in un’esistenza di sofferenza. Siamo alla costante ricerca di piacere perché viviamo una vita che non ci piace, che non ci appaga. Inoltre, da quando nasciamo, siamo bombardati da schemi e sovrastrutture che ci vengono imposti, che servono sicuramente ad ognuno di noi per funzionare bene all’interno di una società, ma che non ci permettono di chiederci chi siamo. Ho realizzato, per esempio, di non essere un musicista, ma di fare il musicista. Cerco di farlo al meglio e sono convinto che la liberazione non è mai per se stessi ma da noi stessi.
Quando si decide di fare un album strumentale come questo, quali sono le difficoltà
maggiori? C’è stato un brano in particolare che è stato complesso da realizzare?
La difficoltà è sempre quella di cercare di fare qualcosa che sia musicalmente accettabile. Vivo un momento della mia vita in cui mi rendo conto di essere stato molto fortunato sia a livello internazionale che a livello nazionale. Ho ricevuto tanto dalla musica e ne sarò sempre grato. Però mi rendo conto che sono arrivato ad un punto che se voglio fare qualcosa, non lo faccio sicuramente per vendere o per essere popolare. Questa visione mi libera molto da quella prigione della popolarità che si viene a creare intorno, anche se non ho mai avuto questo tipo di problema, lavorando “dietro le quinte” da produttore. Voglio fare qualcosa che sia rilevante, che sia vera e non semplice intrattenimento. L’entertainment non è quasi mai arte, mentre l’arte è sempre intrattenimento. Lo sforzo di un’artista è proprio quello di proporre cose che le persone sono abituate a sentire meno. Trovare uno spazio che a me risulta scomodo, sarà sicuramente quel campanello che mi dirà che sto facendo qualcosa di nuovo. Il brano “3-2-1… A tribute…” è un mio omaggio a John Coltrane ispirato da un suo brano, “Countdown”. Tecnicamente è stato molto difficile non essendo un brano chitarristico, ma mi piaceva molto l’idea di potermi avvicinare al sassofono attraverso la chitarra elettrica. La ricerca è un qualcosa di fondamentale nella musica e sicuramente questo è stato il brano più difficile da realizzare.

ph. Joe Messina
Cosa vuol dire essere un produttore e come si diventa produttori?
La prima volta avevo 16 anni. Avevo registrato un album con una band che si chiamava “Cervello” e quando andammo a Milano, allo sbaraglio, ci fecero un contratto. Mi ritrovai in uno studio di registrazione con un fonico che mi affiancava durante le sessioni: non sapevo nulla e mi ritrovavo nella cosiddetta “fossa dei leoni”. Nel frattempo scoprì che c’erano molte affinità tra me e il ruolo di produttore musicale. Ho vissuto anche l’evoluzione che c’è stata a livello tecnologico. Sono un grande fan della tecnologia anche perché se non ci fosse stata, il mondo chitarristico non avrebbe avuto evoluzioni con la chitarra elettrica, i pick-up, etc. Una grande intuizione che venne data in mano a personalità importanti come per esempio Jimi Hendrix, anche se comunque da lì non ci sono state grandissime evoluzioni ma forse è giusto così: non deve esserci una democrazia artistica. Non siamo tutti artisti, e la storia lo insegna. Quando mi trasferì in Inghilterra imparai molto nel settore della produzione. Anche quando mi trasferì successivamente qui a San Francisco, feci una grande gavetta lavorando con Elton John,
Whitney Houston, Aretha Franklin, etc. Nacque così la voglia di affinare ancora di più questo ruolo e con Zucchero ebbi la possibilità di continuare e di sperimentare.In Italia non si facevano dischi come “Oro, Incenso e Birra”, che forse è stato uno dei dischi più venduti.
Quali differenze ci sono tra l’Italia e gli U.S.A. in questo campo?
Bisogna dire che politicamente ed economicamente, l’Italia è messa da parte. Ci sono le
multinazionali che hanno il vero e proprio controllo sull’industria. Io ho avuto la fortuna di vivere in una bolla anomala negli anni ’60 fino alla metà degli anni ’90, dove l’industria guadagnava tanto perché sfornava prodotti che vendevano molto. Non c’era un controllo come oggi in quanto si dava la possibilità agli artisti di fare tutto da soli e vedere poi chi valeva la pena di seguire. L’Italia è succube di questa situazione, come anche altre nazioni rispetto a Londra o a Los Angeles. Gli artisti italiani, nel frattempo, sono succubi del fatto che bisogna cantare in italiano ed è un qualcosa che, vuoi o non vuoi, ti limita notevolmente e ti permette al massimo di arrivare ai paesi latini come
il Sud America. Un artista italiano non riuscirà mai ad imporsi sul mercato americano, a meno che tu non sia Andrea Bocelli, il quale non fa musica popolare e prende una fetta di pubblico più adulto che ha in mente l’idea del bel canto italiano e, quindi, decidono di sposare un progetto come il suo, anche perché quel tipo di progetto in America non c’è. Zucchero anche è stato uno dei pochi che è riuscito ad inserirsi e ad essere credibile qui negli Stati Uniti. Ci sarà sicuramente qualcuno che possa piacere ma non così tanto da essere rilevante nel mercato americano. Non ci sarà mai la possibilità che un artista italiano riesca a spiccare qui. Impossibilità anche per le multinazionali italiane. Bisogna dire anche che non c’è nemmeno una voglia di creare un qualcosa all’estero e di inserirsi
come artisti italiani. Io per esempio sono dovuto scappare via, perché se fossi rimasto in Italia, non avrei mai avuto nessuna possibilità di arrivare più di tanto.
Quanti anni sono che vivi a San Francisco?
Sono arrivato in America nel dicembre del ’77. Con Cristoforo Colombo e la ciurma, siamo partiti ed approdati in California (ride, ndr).
Anche l’inglese, in Italia, non è una lingua parlata come negli altri paesi. C’è una pigrizia di fondo che non permette di fare molto. E’ un paese chiuso che stanno cercando di chiudere ancora di più e per smuovere qualcosa, ci vorrà una grande rivoluzione secondo me.
Mi sembra di capire che dal ’77 ad oggi, non è cambiato moltissimo.
Io non noto grosse differenze, sinceramente. Dimmi tu di qualche artista italiano che è riuscito ad entrare in classifica in America o in Inghilterra. Si parla di Bocelli e Pavarotti.
Eros Ramazzotti e Laura Pausini hanno avuto successo in Germania (che li vogliono sentire in italiano) e in Sud America. Fine.
Tornando all’album, ci sarà un tour?
Non quest’anno per via di numerosi impegni. Sto già lavorando al mio prossimo album da solista e mi ci vorranno diversi mesi per riuscire ad imparare le parti di chitarra che ho scritto (ride, ndr). Nel frattempo sto producendo un chitarrista molto giovane, Filippo Bertipaglia. Un ragazzo brillante che spero di portare all’estero entro quest’anno. Nella sua nicchia di chitarra acustica è veramente un genio e merita di avere voce in capitolo. Poi, con Peppino, stiamo pensando al 2020 come anno per un tour europeo.