DIAMINE: dopo la “Via del macello” siam pronti all’esordio

Di Alessio Boccali

I DIAMINE, all’anagrafe Andrea Imperi Purpura e Niccolò Cesanelli, sono da poco usciti con “Via del macello”, il terzo singolo estratto dall’album d’esordio per Maciste Dischi/Sony Music Italy, che vedrà la luce il primo maggio e che si intitolerà “Che Diamine”. Poco importa se il disco in questione non potrà essere suonato in breve tempo, c’è altro di più importante cui pensare ora, l’obiettivo del duo elettro-pop romano è arrivare dritti al pubblico ed essere nelle loro teste quando tornerà il tempo di fare festa.

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ph. Sara Pellegrino

Ciao ragazzi, innanzitutto come state? Leggevo dalle vostre bio che siete due strumentisti che hanno deciso di mettersi in gioco in una nuova veste. Com’è nata questa idea?

Ciao, siamo abituati a periodi di auto-isolamento quindi ce la caviamo abbastanza bene. Cerchiamo di impiegare il tempo per rendere le nostre case e le nostre idee un po’ più accoglienti. Il progetto è nato principalmente dall’entusiasmo, qualcosa ci riempie in questo atto di creazione lontano anni luce dalle dinamiche da band e dai virtuosismi del singolo. Volevamo sperimentare nella nostra musica la sensazione bellissima di quando non hai più nessun riferimento a cui aggrapparti e così sei eccitato anche solo nel camminare e lo abbiamo fatto fino in fondo.

Il vostro singolo “Via del macello” è il secondo singolo che esce in periodo di quarantena dopo “Isolamento”, che meglio non poteva descrivere il periodo che stiamo vivendo. Questo nuovo singolo invece è quasi come un sogno, come una voglia di tornare alla normalità e di rivedere il tempo scorrere e con lui sbocciare e morire nuove emozioni…

Questo è un brano pieno di forse eppure risulta liberatorio perché affronta il dubbio con la saggezza perduta di un bambino. Il protagonista si fa delle domande ma quello che arriva di più probabilmente è la sua voglia di vivere, lo dico anche in base a quello che mi stai dicendo tu. Spesso la voce ha già la sua gestualità che risulta molto più efficace dei ragionamenti dietro alle parole.

Il vostro sound elettro-pop si presta molto alla creazione di atmosfere tra il serio e il faceto, tra l’immaginato e la realtà. E anche nei testi si nota bene la stessa ricerca al fine di ottenere il medesimo intento. Come si svolge il processo creativo dietro ai vostri pezzi?

Le modalità sono consolidate: Nico scrive la musica e io il testo, in secondo luogo io critico la musica e lui critica il testo finché non arriviamo ad un entusiasmo comune. Ci troviamo bene così. I rapporti veri hanno sempre bisogno di confronti, non sono mai fermi e non devono essere fermi. Bisogna saper viaggiare nell’insicurezza, l’uomo occidentale è troppo presuntuoso e non accetta zone d’ombra che invece contengono la nostra naturale follia che ci rende irripetibili, il motivo per il quale ci muoviamo e ci innamoriamo. Noi non facciamo affidamento all’immaginazione, anzi, per niente. Tutto l’immaginario che scaturiscono le nostre canzoni nasce da un tuffo nel profondo delle nostre realtà entro ovviamente i limiti del nostro sguardo. Quindi diciamo che tutto il surreale lo si trova già con un attento sguardo al reale, la fisica quantistica moderna ci sta dicendo le stesse cose.

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ph. Sara Pellegrino

Il vostro disco d’esordio “Che diamine” uscirà il primo maggio, probabilmente sempre sotto quarantena o comunque in un periodo storico molto complicato. Avete paura, anche e soprattutto per la prospettiva di non poterlo presentare live nell’immediato?

Probabilmente il disco non verrà suonato per molto tempo, pazienza. Ci sono cose più importanti adesso a cui dobbiamo pensare, la natura ci sta ricordando la sua supremazia su di noi, tornerà il tempo delle feste

Non vi chiedo di progetti futuri, ma di normalità. Quale vorreste che fosse la normalità di DIAMINE una volta usciti da questa grave emergenza sanitaria?

Come diceva Lucio Dalla: “L’impresa eccezionale, dammi retta, è l’essere normale”. Noi abbiamo voglia di scrivere e abbiamo sogni semplici: rivederci, parlare dal vivo, girare in moto, uccidere Gno di Maciste Dischi. Cose normali (ridono, n.d.r.).

Per finire, gioco classico in questi giorni. Qualche brano per sconfiggere l’isolamento.

Allora: “Nightcall” di Kavinsky, “Fluff” dei Black Sabbath, “I can tell” degli Sleaford Mods e “Un uomo che ti ama“ di Lucio Battisti.

 

 

Ilaria Viola, rompere gli schemi e diventare finalmente DONNA.

Di Lavinia Micheli

Se dovessi descrivere con una parola Ilaria Viola, probabilmente sceglierei empatia. Il suo ultimo album, Se nascevo femmina, uscito il 24 maggio, è un disco pregno di empatia verso un modo di sentire tipicamente femminile e femmineo. È facile rispecchiarsi in quei testi pieni di voglia di rottura rispetto ad un costrutto culturale che relega, anche in maniera inconscia, le donne entro schemi rigidi e limitanti, volti ad una categorizzazione a tutti i costi. Quello di Ilaria è un grido contro il pregiudizio, un’invocazione alla libertà di essere come si vuole in ogni momento, in barba ai precetti e ai manierismi del “come si conviene”. Ma lasciamo che sia lei a raccontarcelo.

Ciao Ilaria, la prima cosa che ha destato la mia attenzione quando è uscito il singolo Se nascevo femmina, è stata la sua assoluta originalità. Si percepisce una grande volontà di rottura che si trasferisce anche sulla composizione musicale del pezzo. Cosa volevi “rompere”?

Un sacco di cose. Intanto, e questo è un discorso che vale per l’intero disco, il mio essere un’artista un po’ manierista. Volevo rompere la mia patinatura: quel nascondermi sempre sotto lo studio, sotto la bella musica. L’intento era quello di risultare più diretta e la violenza del brano è dettata dall’argomento trattato: quello è un brano che io ho scritto in seguito ad una arrabbiatura reale con la mia famiglia. Eravamo a tavola con tutte le mie cugine ed ero l’unica a non avere ancora figli. Ad un certo punto è arrivata la sentenza fatidica: “Tanto tu dici che non vuoi figli e quindi non sarai mai una donna completa”. A quel punto ero indecisa tra il compiere una strage di massa o riversare tutte le mie sensazioni in una canzone. Ho scelto la seconda opzione (ride n.d.r.). E quindi sicuramente un’altra cosa che voglio rompere sono gli schemi maschilisti della nostra società, che ormai sono insiti anche negli ambienti femminili.

In effetti quest’album è molto femminile e femminista, nel senso più puro del termine. Si sente che parli fuori dai denti e ti senti stretta in qualsiasi tipo di definizione. Ti è mai capitato di sentirti stigmatizzata o costretta in una sorta di “scatola” nel tuo mestiere?

Guarda, io purtroppo sono una cantante e sono una donna. Quindi assolutamente sì. Ma non solo nel mio ambiente. Lasciamo per un attimo perdere il mondo del cantautorato ed entriamo per esempio in quello dell’insegnamento. In questa scuola di musica dove adesso insegno, non c’è neanche una cantante donna che gestisca un laboratorio, perché il senso comune vuole che le cantanti donne non capiscano nulla di musica: non sanno leggere, non conoscono l’armonia, non sanno gestire l’arrangiamento dei brani, non sanno scrivere ecc. Esiste un vero e proprio stigma che a me ha sempre fatto abbastanza imbestialire. All’uscita del mio primo disco, Giochi di parole (2014), avevo paura di dire che avevo arrangiato in prima persona i pezzi insieme a Daniele Borsato (chitarrista di Lucio Leoni n.d.r.): temevo che non appena fosse uscito fuori il suo nome sugli arrangiamenti io sarei improvvisamente passata in secondo piano, musicalmente parlando.

Nel brano Per mezz’ora canti: “Perché io m’innamoro per mezz’ora/ di ogni uomo che profuma un po’ di storia/ e ogni volta m’innamoro per davvero/ senza contegno, senza ritegno, senza rispetto”. Una bellissima ammissione di arrendevolezza e libertà in un mondo che ci vorrebbe sempre cinici e razionali anche rispetto a storie fugaci?

La razionalità è insita nell’innamoramento secondo me. Perché l’innamoramento è una cosa che ti prende a livello mentale e ti coinvolge totalmente. Quindi si tratta di una contingenza qualsiasi- un uomo, una donna, un’amica, qualsiasi cosa- che in quel momento catalizza tutte le tue attenzioni. Questo per me è innamorarsi e quindi ha molto a che fare con l’intelletto e la razionalità. Dopodiché, questo pezzo si collega anche molto a Martini (la quinta traccia dell’album n.d.r.) che invece parla del sesso occasionale che io riesco a fare soltanto se sono innamorata, ma solo per quella mezz’ora lì! Più che di differenza tra razionalità e irrazionalità si tratta di quella che c’è fra essere leggeri ed essere superficiali.

Scorrendo i vari brani dell’album si possono scorgere varie influenze che vanno a comporre quella che è la tua personalità artistica. Mi ha colpito il brano Per la gola, scritto da Leila Bohlouri, che mi ha ricordato una sorta di via di mezzo fra La ballata dell’amore cieco di De André e uno stornello romano. Vuoi raccontarmi come è nata questa canzone?

Mi ricordo che la prima volta che l’ho ascoltata mi trovavo ad un contest di cantautori, eravamo ancora tutti agli inizi. Sentii questo pezzo e mi piacque subito da morire anche perché la storia raccontata è abbastanza tragica (un uomo stufo delle continue lamentele sui pasti preparati per la sua donna che alla fine si vendica divorandola n.d.r.) e fa da contrasto con quest’aria da stornello allegro del pezzo, cantato da questa mia amica con il sorriso sulle labbra. In seguito Leila pubblicò un album di musica elettronica e non era riuscita ad infilarci questo brano meraviglioso, quindi l’ha dato a me. Io mi sono semplicemente limitata ad abbassarlo di tonalità per renderlo ancora più cupo.

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In Bamboombeto, che vede la partecipazione di Lucio Leoni, descrivi i grandi paradossi della società giapponese, a cui ti sei approcciata durante un viaggio in solitaria di circa un mese: il loro essere al contempo razzisti e profondamente ospitali, spirituali e malati di tecnologia. Cosa ti ha lasciato questo viaggio? Perché hai deciso di scrivere questa canzone?

Più che lasciarmi qualcosa, questo viaggio mi ha lasciato andare. Molte persone che mi sono vicine mi hanno fatto notare che in realtà non sono ancora tornata del tutto. È stata un’esperienza fortissima di viaggio, concentrato principalmente nella parte rurale nel sud del Giappone. Ho fatto un intero pellegrinaggio shintoista-buddista che è il Kumano Kodo, pur non essendo buddista né religiosa in generale. Ma credo nella meditazione come recupero delle energie mentali e lì sono riuscita in diverse occasioni a raggiungere la giusta concentrazione: le ore scorrevano come minuti in una serenità totale. Quindi il Giappone mi ha lasciato molta energia mentale. La filosofia buddista è qualcosa di pazzesco, i giapponesi invece sono abbastanza particolari. Fanno una vita assurda, improntata a ritmi frenetici di lavoro, relegando il pochissimo tempo libero a disposizione alla famiglia ristretta, intesa come nucleo famigliare. La vita sociale praticamente non esiste. Chiaramente tutto ciò porta ad una grandissima efficienza: i bambini per esempio già piccolissimi sono in grado di costruire robot! Questa cosa mi ha abbastanza sconvolta.

Il tuo primo album, Giochi di parole è del 2014, ed è radicalmente diverso da Se nascevo femmina. Cos’è cambiato in Ilaria, “nata donna”, in questi cinque anni?

Allora, Ilaria ha avuto una rottura con la musica molto pesante. La vita in questo ambiente è molto dura: la musica ti mangia la vita e a volte è davvero difficile andare avanti, trovare una stabilità. Contestualmente e paradossalmente cominciavo in realtà la scrittura del nuovo disco, con il primo pezzo che era ancora qualcosa di molto costruito, più simile a quelli presenti nel primo album. Un collaboratore di Lucio Leoni, Filippo Rea, che mi ha aperto letteralmente la testa, lo ha ascoltato e mi ha detto: “Ilaria hai stufato con questa storia di nasconderti dietro i tuoi manierismi, dietro lo studio. Nascondi te stessa sotto tutti questi strati e non esci mai! O cambi modo o non vai da nessuna parte e sarebbe un peccato.”. Ho quindi deciso di canalizzare tutta la mia rabbia e la mia energia nella scrittura dei pezzi, ed è uscito fuori il disco che hai sentito.

Romana de Roma. Quanto c’è di questa città nel tuo modo di scrivere e cantare?

Tantissimo. Non posso prescindere dall’accento romano quando sono spontanea, e nel disco, essendo molto spontaneo, si sente abbastanza. Però mi sono contenuta perché volevo che fosse un album che arrivasse a tutti. Io sono stata cresciuta da mia nonna che è una romana de Roma vera, che viveva a Centocelle e parlava a frasi fatte. Inevitabilmente quel modo di fare e di parlare si è insinuato dentro di me, bimba, e non mi ha lasciato più. Roma è una città che si ama e si odia tantissimo, ma è la più bella del mondo!

E cosa ti senti di consigliare alle ragazze che vogliano intraprendere la carriera cantautorale?

Sicuramente di ascoltare tantissima musica di tanti generi musicali diversi. La seconda cosa che consiglio, che può essere anche un’arma a doppio taglio, è di studiare musica e leggere tanti libri. E poi non bisogna smettere mai di prendersi in giro.

Prossime mosse per il disco?

Il primo luglio c’è la presentazione a ‘Na cosetta Estiva a Roma. Per quest’estate sono previste delle aperture che vanno ancora gestite in quanto l’album è uscito da poco. Il tour vero e proprio partirà in autunno.

 

 

 

 

 

BLINDUR

BlindurCoverdi Manuel Saad

Blindur, oltre ad essere un grande musicista e un cantautore d’eccellenza, è una persona magnifica in grado di insegnarti molto. Il suo nuovo album, “A”, è un miscuglio di saggezza, poesia, coraggio, paure e delusioni: cadere a terra è importante e necessario per poter avere la forza di rialzarsi e, con il tempo, rinforzarsi sempre di più. Quest’album ci fa capire che esistono varie forme di buio e la cecità è semplicemente un altro modo di intendere la luce.

“There is a crack in everything – That’s how the light gets in” ovvero “C’è una crepa in tutto- È così che penetra la luce”. Questa frase, tratta da “Anthem” di Leonard Cohen, fa capire ancora meglio questo dualismo di cui parli nel disco. Coraggio e paura coesistono ed è necessario avere paura per accendere il coraggio dentro di noi.

Proprio così, questa citazione mi è molto cara. Per me sintetizza quella dinamica che c’è nel momento in cui si manifesta un’esperienza negativa che può essere un inciampo, un errore nella vita, una di quelle cose che può capitare a tutti. Puoi scegliere di viverla come esperienza negativa o puoi sfruttare quella rottura per capire cosa c’è dall’altro lato, per passarci attraverso, per intravedere qualcosa di diverso, per sfruttare quell’occasione. Il gioco è tutto qui: sfruttare una sventura come un occasione.
Rispetto al disco precedente, è nato tutto di corsa, in un certo senso: le canzoni sono state scritte in poco tempo, registrato in poco tempo e per quanto riguarda la fase creativa, nel giro di sette mesi era tutto iniziato e finito.

Infatti ho letto che le registrazioni sono iniziate ad ottobre circa…

Sì, in realtà sono state un po’ spezzettate. Una caratteristica dei dischi di Blindur è che vengono registrati nei ritagli di tempo. Svolgendo anche il ruolo di produttore, capita che mi ritrovo a lavorare con una band ed ho due giorni di pausa. In quei due giorni mi metto a registrare il disco. Una roba un po’ folle ma va bene così: questo è Blindur.

“Invisibile agli occhi” e “Futuro presente” sono i due singoli che hanno anticipato il
disco. Qual è il processo creativo seguito da Blindur? Parti dalla musica per poi incastrarci i pensieri o sono proprio loro a dettare le regole musicali?

Domandona questa! Diciamo che c’è un prima intuizione, nel senso che arriva uno spunto melodico e magari anche qualche parola. Possono arrivare quattro parole o addirittura una frase intera che mi colpisce. Prendo un sacco di appunti in prosa che poi riscrivo in metrica. Pensandoci bene, non credo ci sia un metodo fisso, in quanto può capitare che mi trovo particolarmente preso male e la canzone viene giù di botto. Dipende dai casi. “Invisibile agli occhi”, per esempio, è stata quasi
scritta di getto, anche se solitamente sto moltissimo tempo su una canzone. Non credo nel fatto che una canzone possa essere scritta in cinque minuti, o meglio a me non è mai capitato. Amo il lavoro di “limatura” che si fa sui pezzi.

Il tuo nome, “Blindur”, è una parola islandese che significa “cieco”. Nome suggerito da Jònsi dei Sigur Ròs, tra l’altro.

Questa cosa in cartella stampa spacca proprio (ride, n.d.r.). Il suggerimento è trasversale, in realtà. Ci siamo incontrati dopo un loro concerto, qui a Roma, un po’ di anni fa. Lui è non vedente da un occhio e mentre mi stava firmando dei dischi, mi dice: “C’è qualcosa che non va nei tuoi occhi!”. “Eh sì, abbiamo svariate cose in comune”, rispondo io. In quel periodo stavo cominciando a dare forma al progetto, avevo scritto qualche canzone, ma non avevo ancora trovato un nome. Volevo una parola sola che suonasse strana e che mi riguardasse da vicino. Volevo un suono, più che una parola e questo incontro con Jònsi mi ha lasciato sconvolto per svariati giorni a seguire. Ne parlai con Michelangelo, il ragazzo con cui suonavo fino a qualche tempo fa, il quale mi suggerì di
cercare in islandese come si dicesse “cieco”. Solitamente gli islandesi hanno queste parole lunghissime, mentre questa era perfetta: “blindur”. E poi, se cerchi su Google ci sono solo io (ride, n.d.r.)

Quest’album, come anche il precedente, vede la partecipazione di Birgir Birgisson, fonico dei Sigur Ròs, Björk etc. Se ti dovessi chiedere quanta Islanda e quanto “freddo” c’è in quest’album, cosa mi risponderesti?

Quanta Islanda c’è? In maniera didascalica ce n’è meno rispetto al primo disco, ma in maniera sostanziale credo di più in quest’ultimo. Nel primo, queste atmosfere dilatate e i suoni molto “spazializzati” ricordavano molto l’Islanda. In “A”, invece, ho salvato più quell’aspetto “oscuro” della musica nordica, quelle atmosfere più crepuscolari. “A” è più dark, in un certo senso, e credo che questa oscurità sia molto più glaciale. Vuoi o non vuoi, è legato a quel motivo lì.

Ti ho fatto questa domanda perché anche io ci sono stato e difficilmente si dimentica ciò che quel posto di mondo riesce a trasmetterti. Ti rimane dentro per sempre.

Non lo dire a me. Ci sono stato quattro o cinque volte e sono malato di quella terra. Solo chi è stato in Islanda può capire che c’è una desolazione confortante in certi paesaggi. Questa roccia così aspra, queste ambientazioni in cui ti senti ospite e che ti fanno sentire molto piccolo. Tutto il tuo universo è molto ridimensionato rispetto alla natura intorno. Questa cosa permette di guardarti dentro e di aprire più facilmente delle porte nascoste di te stesso. Da questo punto di vista, il disco è pieno di riflessioni così.

Nella tua musica traspare tanta voglia di conoscere e scoprire, magari,
conoscerti e scoprirti attraverso altre culture ed altre persone. Hai aperto numerosi concerti di diversi artisti come i TARM, The Zen Circus, Iosonouncane, Dente etc. Hai duettato con Damien Rice, Johnny Rayge e con “Mozzarella Session” ti sei tuffato in questo crogiolo di diversi mondi musicali. C’è qualcuno con cui ti piacerebbe scrivere un pezzo o, addirittura, un album?

Bella domanda! Generalmente, tendo molto ad approfondire le conoscenze. Ho sempre fatto in modo che le persone con cui ho avuto a che fare, in un modo o in un altro, si mischiassero a me. Anche quando abbiamo fatto apertura a svariati concerti, si è finito sempre col fare un duetto. Penso al rapporto che ho con Damien Rice che è nato in maniera molto casuale. Con lui è nata una grande amicizia: andiamo a fare le cene di pesce insieme (ride, n.d.r.). Se devo farti il nome di artisti italiani con la quale mi piacerebbe collaborare ti direi Nada. Con questi personaggi un po’ “spigolosi”, come anche Giorgio Canali, potrebbe uscire fuori qualcosa di veramente interessante. Un nome estero? Aaron Dessner dei The National. Per lui farei carte false. Sufjan Stevens invece è inarrivabile. Dicono che lui se li sceglie con la candela quelli con cui collaborare. Dovrò procurarmene una il prima possibile!

“Invisibile agli occhi” ci dice che esistono diverse forme di buio e che la cecità è,
semplicemente, un altro modo di intendere la luce. Quando hai capito che la musica era la tua luce?

La musica ha un qualcosa di strano. Una canzone di una band con cui ho lavorato diceva: “La musica mi ha salvato, ma ora mi vuole morto”. Mi sembra la sintesi perfetta. Sono una persona, per quanto non possa sembrare, a cui piace stare da solo. In qualche modo, la musica mi ha aiutato a lavorare su quest’aspetto di me, facendomi viaggiare e facendomi conoscere tante persone. Credo che non riuscirei mai ad allontanarmi da
lei. Anche se domani decidessi di non suonare più, la musica rimarrebbe comunque nella mia vita. Nella mia famiglia non c’erano appassionati di musica, quindi quando l’ho scoperta la sentivo molto mia e devo dire che per me è stato uno smarcamento totale nella vita, ancor prima della mia condizione di cecità. Questa lascia e lascerà sempre una traccia indelebile nella mia vita.

Progetti futuri? Partirà un tour a breve…

Sì, partiamo il 27 aprile.C’è questa nuova band da mettere in pista: Carla Grimaldi al violino, Luca Stefanelli che suonerà il basso ed altri strumenti e Julie Ant alla batteria. I concerti saranno nuovi rispetto ai precedenti ed il primo giro del tour prenderà in lungo e in largo l’Italia: Vicenza, Messina, Milano, Napoli, Torino e il 7 giugno saremo a Roma al Teatro India, per India Estate. Ci sono moltissime cose che stanno bollendo in pentola, ma che non possiamo ancora svelare perché sono troppo fiche. Usciranno presto comunque.

Tornano gli U2: per la band di Bono un 2017 ricco di sorprese

Sarà un anno ricco di impegni per gli U2. La band di Dublino infatti è pronta a partire con un tour mondiale e soprattutto con un nuovo album in studio.

Come confermato anche sulla loro pagina Facebook ufficiale, Bono e soci cominceranno a breve una tourneé per celebrare i trent’anni di The Joshua Tree, quinto lavoro della band che riuscì a vincere il premio come miglior album dell’anno alla cerimonia dei Grammy Awards del 1988. Il tour partirà in primavera per poi arrivare in Europa per l’estate. L’annuncio ufficiale  delle date arriverà il 9 gennaio e in molti parlano già di due possibili tappe a Roma.

Come si evince dalla clip diffusa sui social, gli U2 hanno in serbo anche il quattordicesimo album in studio intitolato Songs Of Experience, che dovrebbe arrivare entro la metà del 2017. Tanta l’attesa dei fan per questo lavoro, che completa così il ciclo dedicato al poeta romantico William Blake iniziato nel 2014 con Songs Of Innocence. Come dichiarato dallo stesso Bono il disco sarà più bello di War, capolavoro della band targato 1983.