Un batterista passionale e professionale
di Alessio Boccali
Che sia in concerto o in studio l’energia che Alessandro Inolti impiega per suonare il suo strumento è la stessa perché anche l’obiettivo è lo stesso: instaurare un feeling col pezzo che sta accompagnando e produrre un risultato eccellente per sé e per la band. Solo così si riesce ad arrivare al pubblico per affascinarlo.
Ciao Alessandro, qual è stato il tuo primo avvicinamento alla batteria?
Fin da piccolo seguivo mio padre quando andava a suonare con la sua band ed ogni volta, durante le prove, anche se lui suonava la chitarra, io ero totalmente preso dai suoni della batteria. A sei anni e mezzo, allora, i miei hanno deciso di farmi prendere lezioni di batteria.
La tua formazione poi si è divisa tra l’America e Roma…
Agli inizi ho studiato prima in una scuola popolare a Monteverde e poi ho preso lezioni private da Vincenzo Restuccia, papà di Marina Rei e per anni batterista a Sanremo; successivamente ho studiato alla St. Louis di Roma. Intanto avevo passato un anno tra Roma e New York nel quale avevo studiato con Agostino Marangolo. Dopo quel periodo, nel quale suonavo anche con i kuTso, sentivo che, nonostante andasse tutto bene, mi mancava ancora qualcosa per essere soddisfatto. Parlai allora con Claudio Mastracci, il quale mi suggerì di andare a studiare in America. Non ci ho pensato due volte e sono partito per la Drummers Collective.
Quali differenze d’approccio alla musica hai notato a New York rispetto a Roma?
Secondo il mio vissuto, non ho trovato una situazione molto differente. I locali in cui ho suonato musica originale a New York, spesso non pagavano o pagavano poco. Sicuramente c’è molto più movimento lì, più giro di moneta, e quindi magari trovare dove fare una serata era più facile, mentre qua a Roma è ancora un po’ più complicato. Spesso qui il nostro lavoro non viene nemmeno considerato tale, sembra quasi che si pensi che stiamo giocando, quando in realtà è un mestiere serio. Poi, ti ripeto, anche lì negli Stati Uniti non è tutto “rose e fiori” e ci devi saper fare perché la concorrenza è tanta ed è agguerritissima. Una volta andare all’estero era una svolta, oggi che è più facile, ed economico, muoversi, ovunque bisogna rimboccarsi le maniche, mettersi in fila e fare meglio degli altri per lavorare. Poi attenzione, dal punto di vista del rispetto nell’approccio alla musica c’è ancora tanta differenza: se vuoi arrivare a suonare con un artista, ad esempio, mi hanno insegnato che piuttosto che fare le scarpe al collega è più corretto conoscere il musicista che suona con l’artista che vi piace, seguirlo, aiutarlo e sperare un giorno di poter essere apprezzato da lui per poterlo poi sostituire nel momento del bisogno, piuttosto che provare a rubargli il posto in altri modi un pò meno “eleganti”.
Com’era la tua vita da musicista prima di New York e com’è diventata al tuo ritorno?
Prima dell’America suonavo con i kuTso, con gli almanoir, con Andrea Ra (che poi ho ritrovato nella band di Fabrizio Moro) e tante altre collaborazioni, sempre ben ponderate, mai fatte tanto per farle. Quando sono tornato dall’esperienza all’estero ho trovato il panico; mi sono dovuto rimettere in gioco ed è stata veramente dura. Ciò nonostante, rifarei tutto quello che ho fatto senza ombra di dubbio. Partendo avevo lasciato tante certezze per l’incerto, ma a volte rischiare premia e per fortuna nel mio caso è andata abbastanza bene. Non so se l’America mi ha dato tante cose nuove o se sono io che già le avevo dentro e grazie a quest’esperienza sono riuscito a tirarle fuori. Di sicuro sono migliorato. Ho imparato a saper ascoltare la musica e non sai quanto mi arrabbio quando non riesco ad entrare nell’intenzione del brano e ad accompagnarlo nel modo giusto.
Differenze tra quando ti esibisci in studio e quando suoni live?
Ho sempre lavorato sia in live che in studio, tutto sta nell’entrare nel mood giusto, nell’usare le tecniche giuste. A livello emozionale poi, certo, stiamo su due mondi differenti: in studio hai la pressione del tempo che scorre, dal vivo quella dell’adrenalina. Sono problematiche diverse, certo, in studio non hai il pubblico che ti guarda ed hai tre take invece di una, però anche lo studio ha le sue difficoltà. Alla fine, il segreto per superare tutto quanto è avere sempre un atteggiamento attento, cercare di capire ciò di cui la musica ha bisogno in quel momento.
Una delle emozioni più grandi del tuo 2018 musicale è stato il concerto allo stadio Olimpico con Fabrizio Moro, quali altri bei ricordi ti piace citare?
L’Olimpico è stato meraviglioso e ringrazio ancora Fabrizio per quell’emozione, ma un’altra grossa soddisfazione che mi piace ricordare è l’aver suonato con Adrian Belew, ex chitarrista, tra gli altri, dei King Crimson, di David Bowie, di Frank Zappa. Ho suonato con lui a febbraio sulla “Cruise To The Edge”, la crociera organizzata ogni anno dagli YES. Arrivare a fare una cosa simile è stato un altro punto di arrivo splendido dopo tanti anni di gavetta. Prima di queste due belle botte di adrenalina, un’altra cosa bella l’avevo vissuta con la mia band mezza americana, gli EchoTest, suonando in apertura ad Adam Holzman, tastierista del mio artista preferito al momento, Steven Wilson. In quell’occasione Holzman rimase molto colpito da me, tanto da venirmi a cercare per complimentarsi e chiedermi il mio recapito nel caso in cui avesse avuto bisogno di un batterista. Beh, puoi immaginare bene la mia felicità nel veder riconosciute le mie qualità in un mondo molto poco meritocratico come il nostro. Per fortuna, ci sono delle eccezioni…
Il brano più bello che hai suonato all’Olimpico?
Se la giocano “La Complicità” ed “È solo amore”, ma poi c’è anche “Sono solo parole”… è difficile! Facciamo “È solo amore” perché ha un andamento bello bello.
Progetti a breve scadenza?
Sto lavorando con un artista che si chiama Marco Machera ed ho scritto un brano al piano dal quale vorrei partire per confezionare un mio piccolo EP. In più dovrei tornare in America con gli EchoTest perché ci sono alcune cose in ballo da quelle parti fra cui l’uscita del nuovo disco. Nel frattempo, continuo ad insegnare batteria ed un giorno vorrei suonare con Steven Wilson, ma questo per ora è un sogno.