Fabrizio Moro, tra amore e resilienza noi siamo “Figli di nessuno”

 

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ph. Luisa Carcavale

di Alessio Boccali

«“Figli di Nessuno” è un album benedetto perché arriva in un momento in cui non c’erano né forze fisiche né psichiche a causa di un tour estenuante. Puntualmente, però, ogni volta che mi sedevo davanti al piano arrivavano le ispirazioni giuste; cosa che non era mai successa nemmeno nei periodi migliori. Questo disco presenta due punti di forza: quello detto in precedenza e una produzione durata 7 mesi di studio per curare ogni minimo dettaglio. Per questo, ad oggi, è il mio disco che suona meglio.»

Con queste parole Fabrizio Moro descrive il suo nuovo lavoro. Un album composto perlopiù da strofe serrate e inserti melodici, che fa i conti col Fabrizio del presente e del passato e gli chiede di avere fede, e non solo. Testi non tanto rabbiosi quanto resilienti, un disco pieno d’amore, nella sua accezione più universale, nel quale, anche in fase di produzione, Fabrizio ha dato molta importanza al collettivo chiamando a raccolta tutta la band in un mix di generi e soluzioni che hanno dato vita a undici potenziali singoli.

A proposito dei brani del nuovo disco questo è quanto emerso dal mio incontro con l’artista durante una stimolante round table pomeridiana insieme ad altri colleghi:

Siamo passati dal “Non importa quanto è grande la tua penna, ma come scrivi il tuo nome” di “Seduto a guardare” al “Segnare il tuo passaggio con un coltello” di “Figli di nessuno”. C’è più rabbia nella tua dichiarazione di esistere, di essere?

La rabbia è dovuta a uno sfogo contro tutti coloro i quali hanno sempre voluto giudicarmi senza conoscermi. Ho sempre dato grande valore umano ad ogni mio progetto e spesso mi sono sentito giudicato da persone che non avevano capito niente di me, dei miei sacrifici, di tutta la forza che ci ho messo per arrivare dove sono. Il “pezzo di fango” del pezzo è colui che vorrebbe farti smettere di fare quello che vuoi fare, senza conoscere le tue radici che invece sono fondamentali. Bisogna essere resilienti e credere in se stessi per farcela.

Con questo disco sei arrivato a parlare di amore in una maniera più semplice, forse perché ne parli come un sentimento universale e non come l’amore tra due singoli?

Bravo, in questo disco non sono innamorato di nessuna donna, però sento di avere tanto amore dentro. In pezzi come “#A” o “Come te” – tanto per citarne due – parlando di questo sentimento penso ai miei figli, alla mia prima cotta, alla vita… non c’è amore passionale nei confronti di una donna.

A proposito di “Filo D’erba”, il brano dedicato ai figli…

“Filo D’erba” è il pezzo più ispirato, ma anche quello meno speranzoso. Dopo la separazione con la mia compagna, vedere riflessi negli occhi dei miei figli gli errori che commessi insieme a lei è una cosa che mi devasta dentro perché i figli sono le persone che vorresti proteggere di più al mondo. Eppure in quei momenti ti senti impotente. Mio figlio Libero, poi, mi somiglia anche esteticamente, quindi vedere un piccolo Fabrizio che soffre è come rivedere me, che ero un ragazzino fragile, quasi bullizzato; rivedere quegli occhi che soffrono, mi logora l’anima. Poi, non so se capita ad ogni genitore, ma quando penso ai miei figli, spesso penso a quei vecchietti soli che si vedono per strada; ecco, pensarli da soli, sofferenti, quando io non ci sarò più e non potrò più fare nulla per loro, mi uccide. L’unico consiglio che mi sento di dar loro con questo brano è che, nonostante crescere non sia facile, non bisognerebbe mai aver paura.

Fermandomi al solo titolo del brano “Me ‘nnamoravo de te” ho subito pensato a un omaggio a Franco Califano, in realtà leggendo il testo mi sono accorto che è una ricostruzione della storia, spesso sciagurata, del nostro Paese e non solo… che si conclude con un estratto della trasmissione “Onda Pazza” della Radio Aut di Peppino Impastato…

Nessun omaggio al Califfo, no, semplicemente il “Me ‘nnamoravo de te” nel ritornello suonava meglio in dialetto che in italiano e creare questo impasto tra un suono grunge e il dialetto romano mi ha fatto impazzire. Nel testo, poi, mi ha ispirato un po’ il film “La Mafia uccide solo d’estate” di PIF; mi piaceva quel punto di vista di due persone che s’innamorano mentre sullo sfondo si succedono tutti gli avvenimenti tragici di quel periodo. È un modo di vedere la storia sotto un altro punto di vista che mi ha affascinato molto.

In “Quando ti stringo forte” hai collaborato con Marco Marini, tuo amico ed ex chitarrista. Era uno di quei brani nel cassetto che avevi lasciato lì ad aspettare il momento giusto per venir fuori?

Esatto, era uno di quei brani nel cassetto, rivisitato però. Tra l’altro Marini ancora non lo sa, sarà una bella sorpresa.

A proposito di “Non mi sta bene niente”, il pezzo che fa i conti un po’ col Fabrizio del passato…

Nel pezzo parlo dell’oratorio. Per me l’oratorio è stato il centro della bellezza della mia adolescenza. Ci andavamo non per pregare, ma perché tenevamo all’idea della collettività, della condivisione, dello stare insieme. Lì ho passato delle serate magnifiche: solo io, gli amici, una Peroni, magari una chitarra e senza una lira in tasca. Senza parlare delle giornate passate a strimpellare le cover dei Sex Pistols o dei Ramones – perché oggettivamente erano le più facili – o ancora i pezzi di Umberto Tozzi in versione punk e i nostri mini-concertini di paese col prete a dirigere i lavori. Ho ancora i filmini, prima o poi li tirerò fuori.  Adesso, invece, quando mi trovo a passare delle serate con delle rockstar, con lo champagne, ecc. spesso mi annoio e non vedo l’ora di andarmene.

In “Quasi” dai una bella definizione di questa parola. La descrivi come “L’unità di misura per capire la distanza fra le bolle di speranza e il prezzo della resistenza per sopprimere la parte debole, fragile…”. Mi ha colpito molto questo dare importanza al “Quasi” in un mondo cinico nel quale tutti anelano alla certezza…

Il Quasi è la storia della mia vita. Il Quasi è il viaggio, il percorso, l’attesa, la cosa più importante. È la vigilia di ogni grande “evento”, la parte più bella. La vita è fatta di tanti piccoli frammenti di “quasi”. Se penso a me, non ho mai centrato con felicità un obiettivo, ma ho sempre avuto un’enfasi pazzesca nel raggiungerlo. La cosa più bella per me non è tanto riuscire nelle cose, quanto provarci sempre.

A proposito di quale potrebbe essere l’hit estiva del disco…

Ho un cattivo rapporto con quel tipo di canzone e un po’ mi dispiace. L’unica hit estiva che ho scritto forse è stata “Alessandra sarà sempre più bella”, ma non era un pezzo volutamente estivo. Anche perché quando ho provato a scrivere un pezzo volutamente estivo, non ci sono mai riuscito. Questa cosa la invidio un po’ a Luca Carboni, che è un artista che stimo molto e che ha sempre sfornato dei tormentoni fantastici.

Una curiosità sul pezzo “Arresto cardiaco”…

Il pezzo inizialmente si chiamava “Attacco di panico”, ma “Arresto cardiaco” cantato suona decisamente meglio. Poi pensandoci tra le due cose c’è una correlazione: ogni volta che mi è preso un attacco di panico ho pensato subito all’arresto cardiaco. Quando ti riprendi dall’attacco di panico, però, ti accorgi di quanto sia bella la vita. Infatti nel pezzo lo dico: “La vita è un vestito perfetto che spesso però non sappiamo indossare, ma calza a pennello se impari che a un tratto puoi smettere di respirare…”

A proposito del riscontro dei suoi fan…

Dai miei fan mi sento capito e questa sensazione raggiunge il suo apice quando sono sul palco. Nella vita di tutti i giorni, invece, mi incavolo sempre con tutti: con mio padre, con gli amici, con chi incontro per strada… Stare sul palco davanti al mio pubblico è una delle cose che ancora non mi annoiano.

Per chiudere, “Parole, rumori e anni parte 2” sarà il regalo che ci farai l’anno prossimo per i tuoi vent’anni di carriera?

Sicuramente.

 

ALESSANDRO INOLTI

ale_fabriziomoro16. Lorenzo piermattei

Un batterista passionale e professionale

di Alessio Boccali

Che sia in concerto o in studio l’energia che Alessandro Inolti impiega per suonare il suo strumento è la stessa perché anche l’obiettivo è lo stesso: instaurare un feeling col pezzo che sta accompagnando e produrre un risultato eccellente per sé e per la band. Solo così si riesce ad arrivare al pubblico per affascinarlo.
Ciao Alessandro, qual è stato il tuo primo avvicinamento alla batteria?
Fin da piccolo seguivo mio padre quando andava a suonare con la sua band ed ogni volta, durante le prove, anche se lui suonava la chitarra, io ero totalmente preso dai suoni della batteria. A sei anni e mezzo, allora, i miei hanno deciso di farmi prendere lezioni di batteria.

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La tua formazione poi si è divisa tra l’America e Roma…
Agli inizi ho studiato prima in una scuola popolare a Monteverde e poi ho preso lezioni private da Vincenzo Restuccia, papà di Marina Rei e per anni batterista a Sanremo; successivamente ho studiato alla St. Louis di Roma. Intanto avevo passato un anno tra Roma e New York nel quale avevo studiato con Agostino Marangolo. Dopo quel periodo, nel quale suonavo anche con i kuTso, sentivo che, nonostante andasse tutto bene, mi mancava ancora qualcosa per essere soddisfatto. Parlai allora con Claudio Mastracci, il quale mi suggerì di andare a studiare in America. Non ci ho pensato due volte e sono partito per la Drummers Collective.
Quali differenze d’approccio alla musica hai notato a New York rispetto a Roma?
Secondo il mio vissuto, non ho trovato una situazione molto differente. I locali in cui ho suonato musica originale a New York, spesso non pagavano o pagavano poco. Sicuramente c’è molto più movimento lì, più giro di moneta, e quindi magari trovare dove fare una serata era più facile, mentre qua a Roma è ancora un po’ più complicato. Spesso qui il nostro lavoro non viene nemmeno considerato tale, sembra quasi che si pensi che stiamo giocando, quando in realtà è un mestiere serio. Poi, ti ripeto, anche lì negli Stati Uniti non è tutto “rose e fiori” e ci devi saper fare perché la concorrenza è tanta ed è agguerritissima. Una volta andare all’estero era una svolta, oggi che è più facile, ed economico, muoversi, ovunque bisogna rimboccarsi le maniche, mettersi in fila e fare meglio degli altri per lavorare. Poi attenzione, dal punto di vista del rispetto nell’approccio alla musica c’è ancora tanta differenza: se vuoi arrivare a suonare con un artista, ad esempio, mi hanno insegnato che piuttosto che fare le scarpe al collega è più corretto conoscere il musicista che suona con l’artista che vi piace, seguirlo, aiutarlo e sperare un giorno di poter essere apprezzato da lui per poterlo poi sostituire nel momento del bisogno, piuttosto che provare a rubargli il posto in altri modi un pò meno “eleganti”.
Com’era la tua vita da musicista prima di New York e com’è diventata al tuo ritorno?
Prima dell’America suonavo con i kuTso, con gli almanoir, con Andrea Ra (che poi ho ritrovato nella band di Fabrizio Moro) e tante altre collaborazioni, sempre ben ponderate, mai fatte tanto per farle. Quando sono tornato dall’esperienza all’estero ho trovato il panico; mi sono dovuto rimettere in gioco ed è stata veramente dura. Ciò nonostante, rifarei tutto quello che ho fatto senza ombra di dubbio. Partendo avevo lasciato tante certezze per l’incerto, ma a volte rischiare premia e per fortuna nel mio caso è andata abbastanza bene. Non so se l’America mi ha dato tante cose nuove o se sono io che già le avevo dentro e grazie a quest’esperienza sono riuscito a tirarle fuori. Di sicuro sono migliorato. Ho imparato a saper ascoltare la musica e non sai quanto mi arrabbio quando non riesco ad entrare nell’intenzione del brano e ad accompagnarlo nel modo giusto.

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Differenze tra quando ti esibisci in studio e quando suoni live?
Ho sempre lavorato sia in live che in studio, tutto sta nell’entrare nel mood giusto, nell’usare le tecniche giuste. A livello emozionale poi, certo, stiamo su due mondi differenti: in studio hai la pressione del tempo che scorre, dal vivo quella dell’adrenalina. Sono problematiche diverse, certo, in studio non hai il pubblico che ti guarda ed hai tre take invece di una, però anche lo studio ha le sue difficoltà. Alla fine, il segreto per superare tutto quanto è avere sempre un atteggiamento attento, cercare di capire ciò di cui la musica ha bisogno in quel momento.
Una delle emozioni più grandi del tuo 2018 musicale è stato il concerto allo stadio Olimpico con Fabrizio Moro, quali altri bei ricordi ti piace citare?
L’Olimpico è stato meraviglioso e ringrazio ancora Fabrizio per quell’emozione, ma un’altra grossa soddisfazione che mi piace ricordare è l’aver suonato con Adrian Belew, ex chitarrista, tra gli altri, dei King Crimson, di David Bowie, di Frank Zappa. Ho suonato con lui a febbraio sulla “Cruise To The Edge”, la crociera organizzata ogni anno dagli YES. Arrivare a fare una cosa simile è stato un altro punto di arrivo splendido dopo tanti anni di gavetta. Prima di queste due belle botte di adrenalina, un’altra cosa bella l’avevo vissuta con la mia band mezza americana, gli EchoTest, suonando in apertura ad Adam Holzman, tastierista del mio artista preferito al momento, Steven Wilson. In quell’occasione Holzman rimase molto colpito da me, tanto da venirmi a cercare per complimentarsi e chiedermi il mio recapito nel caso in cui avesse avuto bisogno di un batterista. Beh, puoi immaginare bene la mia felicità nel veder riconosciute le mie qualità in un mondo molto poco meritocratico come il nostro. Per fortuna, ci sono delle eccezioni…
Il brano più bello che hai suonato all’Olimpico?
Se la giocano “La Complicità” ed “È solo amore”, ma poi c’è anche “Sono solo parole”… è difficile! Facciamo “È solo amore” perché ha un andamento bello bello.
Progetti a breve scadenza?
Sto lavorando con un artista che si chiama Marco Machera ed ho scritto un brano al piano dal quale vorrei partire per confezionare un mio piccolo EP. In più dovrei tornare in America con gli EchoTest perché ci sono alcune cose in ballo da quelle parti fra cui l’uscita del nuovo disco. Nel frattempo, continuo ad insegnare batteria ed un giorno vorrei suonare con Steven Wilson, ma questo per ora è un sogno.

Wind Summer Festival, un esordio schiavo dei tempi televisivi

Schermata-2017-06-20-alle-21.59.45In principio c’era il Festivalbar, ora invece tanti festival estivi patrocinati da un brand; l’idea di base però non cambia: sotto le stelle di afose serate estive, sul palco di una o di più grandi città, si esibiscono gli artisti del momento, quelli che hanno da poco sfornato il tormentone estivo oppure stanno vendendo dischi a palate nell’ultimo periodo.

Spesso succede però che questi grandi festival debbano piegarsi un po’ troppo alle esigenze televisive a discapito della musica e del pubblico. È proprio questo quello che è successo nella prima serata di ieri del Wind Summer Festival 2017 a Piazza Del Popolo a Roma. Brani eseguiti più volte, uscite ed entrate in scena dei vari artisti ripetute più e più volte e, soprattutto, artisti tagliati dalla scaletta per motivi di tempi televisivi.

A rimetterci, come dicevamo, è stata in primis la musica e poi Fabrizio Moro, The Kolors, Tiromancino e Cristina D’Avena (gli artisti “tagliati”) insieme ai gruppi molto forniti di fan accorsi appositamente a Piazza Del Popolo per ascoltarli.

Una situazione che non fa di certo onore a chi da mesi sta lavorando corpo ed anima a questo grandissimo evento e che non avrebbe certamente voluto veder palesarsi una circostanza del genere, ma che fa emergere un dibattito interessante. È davvero giusto che la musica, forma d’arte tra le più amate e, proprio in quanto forma d’arte, espressione assoluta di libertà, debba essere così limitata da fattori esterni? Non si rischia di falsare le emozioni provate dall’artista sul palco e di conseguenza dal pubblico in ascolto se la medesima canzone viene fatta rieseguire per colpa di alcune riprese non venute bene?

Lascio a voi la risposta.

Sanremo: tanti gli artisti uniti per “Un Palco per Amatrice”

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Sabato 24 giugno dopo un ottimo Sanremo e un tour ricco di sold out, Fabrizio Moro sarà il protagonista (insieme ad altri artisti) per “Un palco per Amatrice”, il concerto benefico in Piazzale Vesco (Porto Vecchio) a Sanremo. Ritorno nella Città dei Fiori, per il cantautore dopo il successo all’ultimo Festival della canzone italiana con il brano “Portami via”. 

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Per Moro, che è al momento impegnato con il “PACE LIVE TOUR 2017”, sarà un’occasione per presentare su “Un Palco per Amatrice” il suo nuovo disco di inediti “PACE” (Sony Music Italy).

L’evento, è organizzato dal Comune di Sanremo e Fondazione Orchestra Sinfonica con la collaborazione di iCompany. E si punta a raccogliere fondi a favore dei comuni terremotati del Centro Italia.

Durante la festa musicale, saranno accompagnati dall’Orchestra Sinfonica di Sanremo, diverse star della musica italiana come: Marina Rei, Valerio Scanu, Francesco Baccini, Giovanni Caccamo e Antonio Maggio (artisti che hanno un legame molto particolare con la città dei fiori, avendo partecipato in molte edizioni del festival canoro).

Tra gli altri artisti che hanno voluto manifestare il loro supporto per la causa, ma che per impegni precedenti non potranno partecipare alla serata, ci sono nomi del calibro di: NoemiErmal MetaClementinoDolceneraEnrico Ruggeri e Gianluca Grignani, che comunque compariranno in alcuni video trasmessi nel corso dell’evento.

Altri quattro regali per i fan di Fabrizio Moro

moro_q-750x400Ieri sera il “PACE LIVE TOUR 2017” è partito trionfalmente dal Fabrique di Milano, ma non c’è nemmeno il tempo per scaricare l’adrenalina che arriva un’altra bella notizia per i fan di Fabrizio Moro.

Anzi, le belle notizie sono ben quattro. Si aggiungono, infatti, quattro nuove date al “PACE LIVE TOUR 2017”, durante il quale Fabrizio Moro presenterà in tutta la penisola il suo nuovo disco di inediti “PACE” : 5 luglio al Teatro Romano di Fiesole (FI), 5 agosto all’Arena Estiva Giardina del Principe di LOANO (SV), 11 agosto al Teatro Romano di Lecce e 6 settembre al Carroponte di Sesto San Giovanni (MI).

 Dopo l’anteprima milanese di ieri al Fabrique e i 2 appuntamenti, previsti per il 26 (SOLD OUT) e 27 maggio al PalaLottomatica di Roma, ecco tutte le date finora annunciate: 1 maggio al Concerto del Primo Maggio di Roma; 30 giugno al Teatro D’annunzio di PESCARA; 5 luglio al Teatro Romano di FIESOLE – FI (NUOVA DATA); 5 agosto all’Arena Estiva Giardina del Principe di LOANO – SV (NUOVA DATA); 21 luglio al Next Festival (Area Esterna Palavela) di TORINO28 luglio all’Anfiteatro di Ponente a MOLFETTA (BA); 11 agosto al Teatro Romano di LECCE (NUOVA DATA)19 agosto all’Anfiteatro di ZAFFERANA ETNEA (CT); 20 agosto al Teatro dei Ruderi di CIRELLA DIAMANTE (CS); 3 settembre al Teatro Romano di Verona6 settembre al Carroponte di SESTO SAN GIOVANNI – MI (NUOVA DATA).

La recensione di “Pace” di Fabrizio Moro

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GENERE: Cantautorato, Elettrocantautorato, Rock
DATA DI USCITA: 10.03.2017
LABEL: RCA Records Label
ARTISTA: Fabrizio Moro
TITOLO: Pace
TRACCE: 11
VOTO: 4.5 / 5

Fabrizio Moro è un artista coraggioso, un innovatore e canzone dopo canzone, album dopo album lo sta ampiamente dimostrando. Certo, il suo stile è oramai inconfondibile, la sua penna è una delle più mature ed emotivamente potenti del panorama italiano, eppure le sue capacità di giocare con la musica, di mutare genere e sonorità stupiscono sempre.

Il nuovo album Pace è un’ulteriore dimostrazione di questa teoria e Sono anni che ti aspetto, il primo singolo che ha anticipato l’uscita dell’album e che Fabrizio ha già eseguito nell’ultimo tour nei palazzetti, ci aveva già messi sulla buona strada per notare questo mutamento.

Eppure il singolo sanremese Portami via e Pace, anch’essi ascoltabili da prima dell’uscita dell’album, avevano provato ad ingannarci, ricordandoci le classiche e meravigliose ballad del cantautore romano. Da Fabrizio Moro però ci si aspetta sempre di più e le attese di un qualcosa sempre più stupefacente sono state ripagate!

Lo si intuisce subito dalla seconda traccia del disco, che si apre con la già sopracitata Pace. Tutto quello che volevi, la seconda traccia dell’album appunto, è un brano che parla del sempre più forte bisogno di certezze e consapevolezze e che nelle sonorità strizza l’occhio all’elettronica; non semplice pop elettronico, sia ben inteso, bensì un elettrocantautorato con sfumature di rock. Stesso discorso “sonoro” per Giocattoli, un pezzo dedicato alla nostalgia dell’infanzia con un ritornello che fa “Quanti anni hai stasera? Io ne ho tre…” e che vi entrerà immediatamente in testa. Anche Semplice segue la stessa falsariga elettronica, alternando al ritornello un parlato che nelle strofe sembra quasi un rap; un inno super-radiofonico al non complicarsi la vita.

I due pezzi successivi, ovvero il brano sanremese Portami via e La felicità, sono due meravigliose ballad in pieno stile Moro. La sua voce graffiante ed emozionante è inconfondibile e rende ancora più efficace la potenza comunicativa dei suoi testi.

L’essenza, la settima traccia dell’album, è il pezzo più rock di Pace, mentre con la successiva Sono anni che ti aspetto si torna di nuovo sulla strada dell’elettrocantautorato. Percorso seguito alla grande anche dalla più “leggera” Andiamo (impossibile non ballarla).

Gli ultimi due pezzi infine, ci riportano allo stile cantautorale puro. In particolare È più forte l’amore è una bellissima dedica all’amore universale, quel sentimento che non conosce ostacoli di nessuna natura (sesso, razza o religione); un duetto con Bianca Guaccero, che vuole testimoniare la grandezza del sentimento più bello e, fortunatamente, ancora più diffuso al mondo. Intanto, l’ultima traccia di Pace, invece, è un invito a non farsi travolgere dalla fugacità del tempo approfittando, in ogni momento, della bellezza di tutto ciò che avviene nel “frattempo”, nell’attesa di qualcos’altro.

Un album fortemente radiofonico, che ascolteremo e riascolteremo con grande piacere.