Francesco Guccini e il suo politicar cantando

Ma se io avessi previsto tutto questo?

di Lavinia Micheli

La prima volta che Francesco Guccini entrò nella mia vita avevo quindici o sedici anni. L’adolescenza si sa è un periodo turbolento, fucina della personalità, dove si mescolano numerosi input ed output generando una confusione produttiva che genera la necessità di trovare un appiglio sicuro, in cui riconoscersi. Fu questo che per me accadde quando mi imbattei nell’ascolto di Eskimo, contenuta nell’album Amerigo del 1978. Apparentemente una canzone d’amore, un amore lontano nel tempo cronologico e mai dimenticato nella mente dell’artista, ma che conteneva qualcosa in più, che la rendeva per il mio cuore unica nel suo genere. Era una canzone che mi parlava per la prima volta di un amore globale, superiore, un amore che partiva dalla persona amata per andare a comprendere un ideale, un sentimento generale rivolto alla società in cui Francesco Guccini viveva e scriveva.
Alla fine degli anni ’70 il bolognese “Guccio” sognava l’America, come molti dei giovani di quella generazione: basti pensare ai movimenti giovanili di contestazione partiti dagli Stati Uniti e arrivati a diffondersi in tutto il mondo, agli strascichi di quel sogno americano cominciato tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 che aveva spinto milioni di italiani ad emigrare in cerca di una vita migliore, alla cultura, alla letteratura e alla musica del “Nuovo Mondo” che, seguendo gli umori delle masse giovanili in fermento, avevano cominciato a rompere muri e barriere.

Lo dice Francesco stesso in Eskimo che “contro il sistema anch’io mi ribellavo, cioè, sognando Dylan e i Provos”. Nell’album Amerigo però è racchiuso anche il disincanto, la distanza tra l’America sognata e l’America vissuta dallo zio emigrante, raccontata proprio nella traccia che dà il nome all’album: “L’America era allora, per me i G.I. di Roosvelt, la quinta armata, l’America era Atlantide, l’America era il cuore, era il destino, l’America era Life, sorrisi e denti bianchi su patinata, l’America era il mondo sognante e misterioso di Paperino” confrontata con “L’America era un angolo, l’America era un’ombra, nebbia sottile, l’America era un’ernia, un gioco di quei tanti che fa la vita, e dire boss per capo e ton per tonnellata, “raif” per fucile”, vissuta e poi raccontata dallo zio.
Un paroliere nato, un poeta, un cantastorie il Guccio, capace di racchiudere nelle sue strofe storie personali e atti politici e di formarne un connubio di sublime fascino per chi ama parole pregnanti di significato e di vita. Le canzoni di Francesco Guccini sono canzoni che vanno ascoltate nel vero senso della parola: come quelle di ogni grande cantautore devono avere la libertà di scavare dentro poco a poco, di essere assimilate e comprese con il tempo. Un ascolto superficiale non basta. Bisogna avere la pazienza di ascoltare quelle dodici-tredici (solo nel caso de La Locomotiva) strofe senza ritornello, lasciandosi trasportare dall’incanto di composizioni di altri tempi, perché quelle gucciniane sono vere e proprie ballate che raccontano la quotidianità e i sogni di un uomo che non ha mai rinunciato alla sincerità e alla schiettezza, che non si è mai preoccupato di piacere al pubblico né di ricavare chissà quale compenso. Ce lo spiega bene ne L’Avvelenata: “Voi critici, voi personaggi austeri/ militanti severi, chiedo scusa a vossìa/ però non ho mai detto che a canzoni/ si fan rivoluzioni, si possa far poesia/ io canto quando posso, come posso/ quando ne ho voglia senza applausi o fischi/ vendere o no non passa fra i miei rischi/ non comprate i miei dischi e sputatemi addosso”.
Si è sempre guardato a Francesco Guccini come ad un cantante schierato politicamente, proprio perché nelle sue canzoni si scorgevano riferimenti a quanto accadeva al di fuori del mondo della musica, nelle piazze, tra i ragazzi della sua generazione, nelle occasioni storiche e politiche di decenni cruciali in cui Guccini ha vissuto e scritto.

In realtà, per dichiarazione dello stesso cantante e come si legge sul suo sito internet ufficiale: “L’impegno politico di Guccini consiste nel suo modo di raccontare storie particolari elevandole a significati generali, per non dire universali. Politico è Guccini anche nel suo perenne invito al dubbio, alla possibilità di osservare la realtà e il mondo da un altro punto di vista, come rivela anche il ricorso frequente all’ironia e all’autoironia, che sono fra le caratteristiche più costitutive e interessanti della sua fisionomia d’artista”. Ironia che traspare benissimo nei ruoli d’attore in cui è stato coinvolto, uno fra tutti il burbero barista di Radiofreccia, film del 1998 di Luciano Ligabue, amico e fan appassionato.
Ironia che devo aver colto fra i versi malinconici e romantici di Eskimo quel giorno di primavera in cui cominciai ad aprire lo scrigno dei capolavori gucciniani: da La Locomotiva a Farewell, da Due Anni Dopo ad Incontro, dallo sfogo de L’Avvelenata alle lacrime versate su Cirano. Siamo diventati amici, senza che lui lo sapesse nei suoi testi trovavo conforto ed ammirazione con quell’attenzione e quella profondità che si ha solo a sedici anni, quando si sceglie la musica fidata che ci accompagnerà per la vita. Dev’essere stato lo stesso sentimento che ha accompagnato la schiera di artisti che ha partecipato all’album tributo Note di Viaggio-Capitolo 1: Venite avanti…a cura di Mauro Pagani, uscito nel novembre 2019. Manuel Agnelli, Malika Ayane, Samuele Bersani, Brunori Sas, Luca Carboni, Carmen Consoli, Elisa, Francesco Gabbani, Luciano Ligabue, Giuliano Sangiorgi, Margherita Vicario e Nina Zilli hanno reinterpretato alcuni dei migliori classici di Guccini riarrangiati dallo stesso Mauro Pagani.
Francesco Guccini è un caposaldo, un uomo di un’altra epoca che racconta sogni, aspirazioni, problematiche universali senza tempo, e forse è proprio questa sua aurea sacrale sprigionata da una figura semplice e riservata che ce lo fa amare come se fosse un membro della nostra famiglia. “Come si porta un maglione sformato su un paio di jeans”.