Samà

Rennes, le 9 décembre 2017. Sama

di Carlo Ferraioli

Samà, musica per resistere

Palestinese, dal 2006 suona techno e diffonde il proprio messaggio di unione e pacificazione da Ramallah al resto del mondo. La prima donna dj della sua terra e pioniere di un genere che comunica anche senza parole, l’elettronica

«La prima volta che ho sentito la techno ero in Libano, ed era la prima volta che lasciavo la Palestina. E’ stata la prima in cui mi sono sentita libera. Non ero più in una situazione di guerra, la musica mi ha estraniata dal presente e mi ha portata in uno spazio tutto mio. Mi sentivo completamente distaccata dalla realtà, non capivo da dove provenissero i suoni», parole significative quelle di Samà Abdulhadi, palestinese, in un’intervista video rilasciata a Repubblica poco meno di un anno fa. Le parole di chi, come Samà, è andata oltre non solo i ruoli di genere, ma anche oltre guerre, conflitti e pregiudizi. Quelli della sua lingua di terra: un luogo capace di vedere represse anche le libertà più elementari, quelle che a noi sembrano scontate.


Fra queste, quella di suonare, di cantare, di ballare al ritmo di un brano, di melodie incalzanti, quelle che Samà sa sprigionare bene tra bassi, frustate, cambi di direzione e sporcature di una musica fatta per raccontare un’esigenza. Nel 2006 ha iniziato a organizzare feste a Ramallah, in Cisgiordania, ma ci sono voluti dieci anni prima che il genere venisse accettato (quasi) del tutto. «La prima volta che ho suonato a Ramallah non è andata bene. Andarono tutti via. Nessuno capiva cosa stavo suonando, eravamo abituati ad ascoltare hip hop in arabo e quello che passava in radio. Mi guardavano tutti come a dire “dove sono le parole? Cos’è questo rumore?”».

Nel 2017, mentre stava per stabilirsi a Parigi, Samà decise di cambiare il nome da Skywalker a SAMÀ, il suo attuale, che in arabo significa “Cielo”.

All’inizio della sua carriera, Samà non viene capita, e sarà solo dopo alcune conoscenze e una formazione acquisita fra Regno Unito ed Egitto che la star palestinese riuscirà ad imporsi come dj sia in Cisgiordania che nel resto d’Europa. A Londra (2011) frequenta la School of Audio Engineering e SAE Technology College: l’esperienza rafforzerà le sue certezze. Esce sotto lo pseudonimo Skywalker con gli EP Life’s Pace e Quantum Morphosis. Nel 2013 inizierà a lavorare a Il Cairo come produttrice di musica per film, e nel 2016 fonderà Awyav, un’agenzia di publishing che rappresenta artisti indipendenti provenienti dal mondo arabo.

Ad oggi, Samà gira il mondo e rappresenta ancora – e in modo nitido – ciò per cui la techno – e la musica elettronica – sono nate: cambiamento, rottura, discussione. Anarchia. Se la Palestina, per qualcuno nel mondo, è un esempio di resistenza, questo è anche merito suo.

Woody Allen e la politica nei film

Woody Allen

“I politici hanno una loro etica. Tutta loro. Ed è una tacca più sotto di quella di un maniaco sessuale.”

di Manuel Saad

Questa è una delle citazioni più famose del regista americano Woody Allen. 
Il commediografo statunitense è, da sempre, tra i più celebri umoristi della nostra epoca contemporanea.
 Dagli esordi fino ad oggi, lo stile di Allen si è plasmato con il tempo, diventando unico e facilmente riconoscibile.

Uno stile che è stato in grado di spaziare su numerosi temi in cui la critica e la satira sono stati gli unici strumenti in grado di sviscerare le dinamiche più curiose e complesse dell’essere umano.
 La borghesia, il capitalismo e la politica stessa, infatti, si sono ritrovate sotto i ferri di un Wood Allen sempre pronto a smascherare e mettere in ridicolo alcuni meccanismi e comportamenti, servendoli al pubblico con dei colori grotteschi.

woody-allen

In ogni suo film, tra i tanti sketch che Allen ha scritto e recitato, c’è sempre stato un riferimento politico sul quale ha scherzato e usato a suo favore per tradurre determinate sensazioni. 
Ricordiamo “Manhattan”, film in cui si fa riferimento al rapporto tra Hitler ed Eva Braun, con un sottile velo di provocazione e sarcasmo o “Io e Annie”, caratterizzato dal famoso riferimento ad Eisenhower: “Ho avuto solo una relazione con una donna durante l’amministrazione di Eisenhower, e in breve è stata un’ironia per me, perché io cercavo di fare a lei quello che Eisenhower sta facendo al Paese per otto anni!”.
 Ma il film che si prende totalmente gioco della politica, è la pellicola uscita nel 1971 intitolata “Il dittatore dello stato libero di Bananas”, nella quale il giovane Allen, alle prese con il suo terzo film, inventa uno stato fittizio per ironizzare la situazione politica statunitense e le interferenze militari nel Sudamerica.
 Le contraddizioni dell’attivismo giovanile e della politica estera vengono mostrate attraverso dialoghi ben costruiti in cui Allen riesce a muoversi con estrema facilità parlando con un linguaggio pungente e spiccato. 
Anche i mass media non trovano una via di fuga dalla sua macchina da presa: il colpo di stato viene equiparato ad un grande evento sportivo, mettendo così in risalto le crepe presenti nel sistema d’informazione e di come le notizie vengono servite, perdendo di vista il focus. 
Un qualcosa che da una città fittizia, di un film del 1971, non si discosta molto dalla nostra realtà.

È giusto che i cantanti dicano la loro?

Musicazero Km / #Musicology

di Manuel Saad

La figura dell’artista, per molti, è considerata fondamentale all’interno di una società. Ma c’è chi ritiene che debba occuparsi esclusivamente della propria arte e non mettere bocca in dinamiche sociali. 
Tu da che parte stai?
Molte volte, diversi artisti si sono espressi in merito a situazioni politiche e sociali sia attraverso i loro canali social sia attraverso la loro musica.
 Le reazioni del pubblico, spesso, vanno dalla totale indifferenza al compiacimento, per passare poi nella totale indignazione per cui un artista deve preoccuparsi solo di “cantare” o “suonare”.

Ma la musica deve essere soltanto uno strumento ludico o un semplice sottofondo per staccare la spina?
La storia, però, ci dice tutt’altro, come anche i recenti fatti che puntano una luce diversa sul ruolo di un musicista.
 Bob Dylan ricevette il Premio Nobel per la Letteratura nel 2016, Patti Smith una laurea ad honorem all’Università di Padova in lingue e letterature europee e americane, come anche Jack White, sempre nel 2019, in Lettere Classiche “per il suo contributo alle arti e per la sua dedizione alla città di Detroit”.

Riconoscimenti importanti che mandano segnali importanti alla comunità, come successe anche nel caso di Kendrick Lamar, il primo rapper della storia ad essersi aggiudicato il prestigiosissimo Premio Pulitzer della Columbia University di New York, con la motivazione “una virtuosistica raccolta di canzoni caratterizzata da una autenticità del gergo e dalla dinamicità ritmica, capace di offrire immagini che colpiscono e che catturano la complessità della società afro-americana oggi”.
 Il suo quarto album, “Damn”, è stato premiato in quanto è riuscito a raccontare la cruda realtà in cui è costretta a vivere la comunità afroamericana.
Attraverso la musica, Lamar è riuscito a mettere in luce situazioni scomode, raccogliere testimonianze e ricoprire il ruolo di un vero e proprio giornalista d’inchiesta.

Una vera e propria scelta politica in quanto il rapper afroamericano, nato nei bassifondi di Compton, non ha mai nascosto la sua spiccata avversione nei confronti del presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump.
 Pensandoci bene, i musicisti e i cantautori non fanno altro che sonorizzare tutto quello che li circonda, esprimendo attraverso la musica la loro visione del mondo che può coincidere o meno con quella di un ascoltatore. La musica è un strumento comunicativo molto potente in quanto riesce non solo a mandare messaggi importanti ma facendoli rimanere nella testa di chi li ascolta e carpisce il fine ultimo di una canzone.
 Semplificare il tutto con “sei un cantante, occupati di musica e non di politica” evidenzia una lacuna notevole in ambito storico, politico e sociale.

Intendere la musica come un qualcosa di superficiale, come un accessorio, risalta la superficialità di chi sostiene questa tesi.
 Tesi priva di fondamenta e di strutture solide in grado di reggerla e farla valere.
 La musica è sempre stata presente e ha sempre raccontato, come una fotografia, il periodo storico nel quale usciva prepotente e inondava le orecchie delle persone: l’ha sempre fatto e per sempre lo farà.