Sono Xavier Pompelmo, non sono un supereroe, ma con la musica scelgo davvero chi voglio diventare…

Di Alessio Boccali
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ph. Francesco Casarin

Xavier Pompelmo è vivo e vegeto, a discapito delle voci che lo identificavano in un cantautore anni ’70 misteriosamente scomparso. In realtà, sotto a questo esotico pseudonimo, si cela un artista romano di nome Davide Bastolla, che ha deciso ormai da un po’ di tempo di rivelarsi con il suo vero volto. Producer, cantautore, visual artist, fondatore e direttore dello studio di effetti visivi “Bastanimotion”, Xavier Pompelmo è un artista a 360°. Nel 2018, parallelamente al lavoro sui videoclip di artisti affermati come Rancore & Dj Myke, kuTso, Margherita Vicario e Giancane (per il quale anima i disegni di Zerocalcare per il videoclip di “Ipocondria”), il ragazzo ascolta la sua vena da cantautore e pubblica il brano “Nebulosa”, pezzo dalle forti tinte melanconiche e romantiche, del quale – naturalmente – cura anche il videoclip. Qualsiasi sia l’arte nella quale Davide Bastolla decida di cimentarsi, il suo stile è sempre molto riconoscibile e il suo approccio riflessivo e allo stesso tempo onirico/utopico. Non fa eccezione il suo primo album, interamente curato dall’artista stesso – sia nella parte prettamente musicale che nella parte creativa, grafica e visuale – uscito ad inizio novembre di quest’anno e intitolato “Valanghe”.

Ciao Davide, Da dove nasce l’idea di creare questo personaggio misterioso per dar vita e più morti (poi ne parleremo meglio, n.d.r.) al tuo progetto musicale?

Mi sento fuori tempo massimo, le mode cambiano, i tempi, la cultura, tutto si sta evolvendo (o involvendo) in una direzione che a volte non capisco e che spesso non incontra i miei gusti. Così ho deciso di abbandonarmi a concetti nostalgici e di trasportarmi in un passato alternativo, creando un alter ego che, vittima egli stesso dei propri tempi e morto nell’anonimato, cerca il suo posto, il suo spazio, la sua impronta nel cemento.

Da regista, illustratore e non solo, a producer musicale e cantautore; come nasce l’esigenza di passare, o meglio affiancare alla comunicazione attraverso delle immagini, quella mediata dalla musica e dalla scrittura?

Ogni linguaggio è veicolo di espressione, ogni linguaggio ha le proprie sfumature e la sua potenza narrativa. Con la musica riesco a raccontare a me stesso in maniera più diretta e neorealista i sentimenti, cosa che con il manierismo del video non riesco a fare. Con il linguaggio visivo mi piace inventare mondi, giocare con l’assurdo, con il grottesco, allontanandomi dalla realtà. Nello scrivere brani riesco ad essere diretto, “nudo”.

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ph. Francesco Casarin

Un disco composto da solamente 8 brani (per esigenze di mercato, forse?), che ha lasciato fuori vari pezzi che sicuramente avrai ben custoditi in un cassetto (uno, tra l’altro lo abbiamo anche già sentito, “Fendinebbia”). Cosa hanno di speciale queste 8 elette?

Le 8 valanghe sono brani affini, sia per sonorità che per tematiche, hanno atmosfere complementari e seguono un flusso narrativo coerente. Inoltre, li ho lavorati tutti come fossero a sé stanti, a livello di durata, come fossero dei singoli, ma cercando di contaminarli di sonorità e di mondi simili. Vivo come tutti noi in tempi frenetici in cui la concentrazione è sottoposta a distrazioni continue, io stesso difficilmente riesco a godere di concept album con un portamento graduale, quindi ho deciso di inserirmi nei ritmi pulsanti della città e del suo battito cardiaco. Volevo evitare di essere “prepotente” e forse proprio questo mi penalizzerà, ma di certo lo rifarei, perché lo reputavo giusto per questo progetto. Quindi non per esigenze di mercato, non ho etichetta o simili, ma semplicemente per entrare meglio in sintonia con la vita di tutti.

Se fossi costretto ad “affibbiare” un’etichetta al tuo sound, parlerei di un “pop elettronico”. A prescindere dall’etichetta, però, mi interessa più conoscere cosa c’è alle origini delle tue scelte sonore…

Nasco come chitarrista, la suono anche bene, ma la chitarra è ingombrante in una produzione, volevo avere una visione di insieme più vergine per poter vestire i brani, quindi il primo passo è stato censurare lo strumento, usandolo solo dove pensavo fosse necessario e facesse la differenza. Ascolto molta musica elettronica, le atmosfere cupe, e sospese mi affascinano, questo mi ha influenzato molto nel produrre il disco: lo scheletro di un brano, la meccanica dei suoni, più che il suonatore stesso, erano gli aspetti che volevo caricare a livello di mood del disco.

Il primo pezzo ad uscire ufficialmente è stato “Nebulosa”, una bella sorpresa, che parla d’amore in una maniera molto terrena e poco convenzionale e che ha avuto un ottimo impatto sul pubblico. Come hai vissuto questo esordio con successo?

Il successo è sempre molto soggettivo, dati alla mano sono un neo nell’universo della musica, ma sono stato felicissimo che Nebulosa abbia impattato ed “empatizzato” con la sua fetta di pubblico. Penso sia un brano che merita molto, non io, il brano. Mi reputo un esecutore. I musicisti non sono altro che persone qualunque, che vivono una vita qualunque, ma che a differenza di altri riescono a raccontare in una lingua più universale di altre; di certo, questa è una dote pari a chi sa insegnare in una scuola, aggiustare una macchina, o semplicemente vendere dell’insalata al mercato rubandoti un sorriso o condividendo con te un dilemma.

Da tutti i pezzi di “Valanghe” emerge prepotente la tua sensazione di incertezza e paura nel relazionarti col mondo e con gli altri, una sensazione che accomuna molti di noi nella società che viviamo. A posteriori, questo tuo mettere in musica queste emozioni ti ha aiutato a trovare una cura? (Magari lì sulla luna dove chiedi di esser spedito nell’ultimo pezzo in tracklist?)

Una cura vera e propria no, ma nella musica io scelgo di essere chi davvero voglio diventare.

Parlavamo in apertura dell’uso costante che fai della parola morte, non solo nel descrivere il tuo “personaggio” musicale, ma anche all’interno dei vari testi. Affermi di morire più volte, naturalmente spesso anche in chiave ironica; cosa rappresenta per te il “morire”?

Nei miei brani, il “morire” è un concetto di rinascita, non di morte fisica, muoio ogni volta che tocco il fondo, ma toccare il fondo è l’unico modo per ritrovarmi e per imparare in futuro una via di mezzo più tollerabile e meno impattante emotivamente.
Quindi si muoio spesso.

Cosa metteresti in secondo piano, cosa rischieresti per la musica?

Sto già rischiando tanto, non sono più così giovane e non ho un mio target di riferimento a livello di “mercato”, la moda va da tutt’altra parte e per produrre “Valanghe” ho accantonato la carriera da visual artist, almeno per un po’. Eppure, lo rifarei, mi fa stare bene; non è solo per egocentrismo, ma un modo per trovare una “condivisione” che nella vita vera faccio fatica a trovare: “mal comune, mezzo gaudio”.

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ph. Francesco Casarin

In “Macigno con le gambe”, il pezzo che forse più mi ha colpito, affronti la realtà di essere figli e la crescita, in particolare affermi di essere cresciuto quando canti che “Non c’è più il giullare di corte…”. Quando hai preso coscienza che c’era una vita da affrontare in autonomia e che quindi eri cresciuto?

A prescindere dallo stile di vita di ognuno, la vera crescita per me è arrivata con l’accettarmi. Prima ero spaventato da alcuni lati del mio carattere che non accettavo e che pensavo mi avrebbero sabotato col tempo, mi giudicavo molto. Ho capito che devo volermi bene e che il giudizio legato alla mia persona non deve MAI essere condizionato dal giudizio “sociale” e dalle scale di valori comuni, ma dalle mie. Ecco, sono diventato amico di me stesso e sono cresciuto un po’, non del tutto, ma un passo in più.

Ho letto sui tuoi vari social che sei un tipo abbastanza ansioso. Sei “nato” dietro a una telecamera, a un certo punto hai deciso di spostarti dall’altra parte dell’obiettivo divenendo tu il soggetto da riprendere (ad esempio con le tue “cover indie”, n.d.r.), ma stiamo parlando comunque di una dimensione digitale. L’impatto del live, dell’incontro con il pubblico, ora, ti spaventa?

Si, canto brani molto intimi, sono parte della mia storia, brani scritti per me prima che per gli altri, ma che cercano negli altri conforto. Mi fa fatica pensare di mettermi a nudo davanti a persone che non conosco, e per me le persone non sono il pubblico, sono 5 persone, 10 persone, 50, 100… persone, e l’idea di dover raccontare della mia vita senza uno scambio, in qualche modo mi mette un pelo di ansia, ma giusto un pelo eh! (ride, n.d.r.). E poi negli anni ho abbandonato ogni attitudine da poser, che invece è alla base della musica in questi anni. Vedo tanti cantanti di oggi che si piacciono molto, poi ripenso ai songwriter che mi hanno affascinato da piccolo e vedo l’abissale differenza: mi ricollego alla prima domanda, un po’ sono morto con loro. 🙂