IRENE GHIOTTO È “SUPERFLUO”!

Di Manuel Saad

Irene Ghiotto_photo session_02Irene Ghiotto è un vulcano di energia, una bomba all’idrogeno pronta ad esplodere. Nel suo nuovo album, “SuperFluo”, c’è tanta rabbia e tanta voglia di riscatto personale. L’abbiamo raggiunta per farci raccontare com’è riuscita a veicolare quest’energia nel modo giusto.

Ciao Irene, il tuo “SuperFluo” è pieno di venature, di percorsi. Qual è stato, invece, il percorso che hai intrapreso per arrivare ad avere tra le mani quest’album?

Ciao! Questa è stata letteralmente una crescita personale. Una crescita indirizzata verso l’indipendenza dalle persone che amo, difficilissima da ottenere. Mi è servito vivere da sola, sentirmi sola e spostarmi nel mondo da sola. Mi sono resa conto che non mi muovevo senza qualcun altro. Questo è un disco in cui cerco, nella mia età matura, di essere  il più indipendente possibile e di perseguire una felicità, una realizzazione, che sia solo mia e non appoggiata ad altri. Tutto intorno questo discorso c’è tanta rabbia derivata dall’incomprensione della mia complessità. Non sono arrabbiata con il mondo per questo ma con me stessa. L’effetto che ho avuto nella realizzazione del disco, però, non è stato quello di semplificare ma quello di spingere questa complessità.

Come mai questo titolo?

Non sono mai stata brava nella scelta dei titoli, tanto che il mio primo EP non aveva titolo.
Questa volta è stato diverso. Mi sto per laureare in Filologia Moderna e studiando per un esame di letteratura polacca, leggendo degli scritti di analisi critica, mi rendo conto che il tipografo per scrivere “superfluo” era dovuto andare a capo troncando la parola e io lessi “superflùo”. Quell’errore di lettura mi aveva fatto capire che spostando l’accento prendeva tutto un altro sapore. Mi ci sono ritrovata subito.
HO subito pensato ad un discorso di duplicità dell’anima che io sento di avere.

È difficile raccontare l’universo femminile attraverso la musica?

Non è difficile per me, in quanto femmina e quindi ascolto quello che sono. Forse il difficile sta nel rappresentarne la complessità – non che l’universo maschile non lo sia – e, anche, trovare il giusto linguaggio che mi inglobi completamente. Quando faccio un qualcosa, mi ci riconosco nel momento in cui l’ho fatta ma il giorno dopo già sono diversa.

Intendi una sorta di continua crescita?

Sì, esatto. Un’evoluzione continua che però rischia di cambiare la tua visione su quella cosa. Con il passare del tempo ti accorgi che molte cose erano rappresentative per te, prima. Quello che mi piace molto di questo disco è che mi ci rivedo ancora, nonostante mi senta già diversa. Sta “camminando” con me ma, come con tutte le cose, lo dovrò lasciar andare. Ed è anche questo il bello: la caducità.

Qual è stato il brano con il quale hai “lottato” di più e quello che invece è uscito subito, di getto?

“Le cose” è uscito subito. È sintetico, è corto e dice l’essenziale con molta forza.
Il brano che mi ha fatto imbestialire per la costruzione che c’è dietro è stato “Assurdità”. Infatti è assurdo!
Mi ero messa in testa l’idea che volevo definire l’assurdo. Definirlo testualmente ce la si può fare. Musicalmente è stato difficilissimo. Questo perché anche io cerco di riportare tutto al mio orecchio e ai miei canoni, e in questo lavoro che ho fatto, ho cercato di creare un nuovo canone, sempre con modestia (ride, ndr).

L’album si chiude con il brano “Le cose”. Un brano quasi sussurrato che successivamente esplode in una dolcezza orchestrale. Quali sono le cose e le parole che ti fanno star male?

Sicuramente non quelle che non capisco perché mi aiutano a crescere. Le parole che mi fanno stare male sono quelle dette per ferire, che non hanno un principio di evoluzione nella dialettica. Capita di riceverle e anche di dirle. Tutti siamo bestie e un po’ stronzi. Paradossalmente lo siamo con le persone che amiamo di più. Gli schiaffi in faccia più forti li ho ricevuti dalla famiglia. Se mio padre mi dice qualcosa, senza far attenzione, mi offende di più rispetto a qualcun altro.
Le cose che mi hanno fatto più male, invece, sono quelle che ho dovuto lasciare. Ho vissuto per sette anni in una casa in affitto. Mi ci sono affezionata tantissimo. Ogni volta che devo abbandonare qualcosa, mi rendo conto che gli ho messo dentro una storia e quando ho dovuto dire “ciao”, è stata tosta. Più che essermi portata le cose dentro alla mia vita, ho lasciato un po’ di me nelle cose che sono rimaste.
È la cosa più difficile ma questo ti rende libero dentro.

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Personalmente, ho trovato un altro tema in quest’album. L’empatia, l’essere empatici.

Tu mi stai prendendo per quello che sono veramente. È una cosa strana che tu l’abbia colta nei pezzi. Ti ringrazio perché non è scontato. Anche tu sei empatico e questo vuol dire che empatizzi con la mia empatia. Sono così empatica tanto da soffrire per questo. Non credo di aver scritto canzoni come inni all’empatia, ma credo di esserlo io. La parte brutta è che soffri tu, tantissimo, per le situazioni che vedi negli altri. Soprattutto se gli altri non te lo dicono, ma tu lo senti.
La cosa positiva è che l’empatico è apertissimo agli altri e per me la relazione tra gli esseri umani è fondamentale per la mia musica.
Quindi sì, c’hai beccato!

Stai pensando a qualcosa per i live? Come saranno strutturati?

La novità è che sarò totalmente in piedi, come una femmina potente e arrabbiata! Un approccio completamente nuovo in quanto nei miei live ho sempre suonato il piano o, male, la chitarra. Ho sempre avuto uno strumento che mi separava dal pubblico. Non mi sono mai consentita quella sicurezza di potermi muovere col mio corpo. Ho fatto molta danza da bambina ma ho avuto sempre qualche timidezza e l’ho abbandonata proprio perché sentivo di non riuscire ad esprimermi appieno con il corpo.
Mi rendo conto ora che mi trovo nel momento più florido della mia vita, come donna, come essere umano, che è proprio questo a rendermi più sicura a stare sul palco con il mio corpo, con la mia sensualità e con i miei gesti molto maschili. Il femminile e il maschile insieme.

Quanti sarete sul palco?

In questa prima parte del tour che faremo nei club più piccoli, saremo quattro anche se, in realtà, la formazione perfetta sarebbe otto. Ma per via di budget e di spazio fisico, abbiamo ridotto il numero.
All’inizio pensavo sarebbe stato molto difficile suonare il disco bene in quattro, ma mi sono ricreduta.
A tutti noi piace questo disco e lo suoniamo super spinto anche perché c’è davvero tanta chimica tra di noi. C’è molta intesa e ci riconosciamo l’uno nell’altro.

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