MALEDIZIONE INDIE

Di Alessio Boccali

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Dapprima indie e basta, poi indie pop e sul finire ITPOP prima di essere assimilato al pop a tutti gli effetti. Lo abbiamo chiamato in tutti i modi questo “genere musicale” che negli ultimi anni ha riempito le nostre playlist e le nostre orecchie.

Questa tendenza musicale ha vissuto una parabola ascendente tale da far dibattere molto: si son aperti talk sull’indie, improvvisati dibattiti e, addirittura, scritti diversi libri. Ora però che succede? siamo giunti al “canto del cigno”? È notizia di poche ora fa lo scioglimento dei Canova, band milanese di casa MACISTE DISCHI; la notizia ha fatto di certo molto rumore, come accaduto nemmeno un anno fa con l’allontamento dai thegiornalisti e il conseguente esordio da solista di Tommaso Paradiso. Non parliamo poi della separazione professionale tra Carl Brave e Franco126, notizia che è passata forse più in sordina perché mai ufficialmente annunciata con post et similia, ma che ha portato dispiacere a non pochi ascoltatori. Insomma, tanti indizi fanno una prova, l’indie nostrano, per come avevamo imparato a conoscerlo negli ultimi anni, dunque nella sua accezione più pop e mainstream, sembra proprio agli sgoccioli.

Qualcuno naturalmente resiste (o ci lascia con la speranza che sia così): son certo che Calcutta viva da eremita in qualche campagna e stia preparando un ritorno in grande stile, Gazzelle ha rispolverato dal nostro armadio dei ricordi gli Zero Assoluto e ci ha cantato in un singolo nemmeno malaccio, COEZ è vivo, ogni tanto caccia fuori un feat. in cui la sua presenza è forte, poi torna sotto la sabbia, forse a lavorare a un nuovo progetto, altri come Motta o Brunori SAS – tanto per citarne due, ma di esempi da fare ce ne sarebbero un po’ – non hanno mai del tutto virato verso il mainstream – e per questo ho titubato prima di inserirli qui – conservando il loro alone di mistero e, forse proprio grazie a questa scelta, si son salvati dalla maledizione dell’ITPOP. Per i sopracitati il mondo non è mica finito, sia ben inteso, si è aperta forse una nuova pagina di vita, si è compiuta una scelta definitiva tra mainstream e mondo indipendente abbandonando quello che probabilmente era diventato un limbo troppo stretto e nel quale per varie esigenze – comprese quelle artistiche naturalmente, ma non solo – era impossibile rimanere.

Vasco Brondi, il quale anche lui già nel 2018 ha chiuso il percorso artistico de Le Luci della Centrale Elettrica per “ripartire in altre direzioni” (parole sue), ha pubblicato un libro praticamente undici anni fa, “Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero”, del quale, tralasciano il contenuto non in tema, mi piace prendere in prestito proprio il titolo per poi parafrasarlo così: “Cosa racconteremo di questo cazzo di indie”. Non voglio nemmeno togliere la parolaccia perché dà più enfasi a quello che è stato un fenomeno del quale probabilmente avremo da parlare ancora a lungo. Toccherà capire se a posteriori o dopo una nuova rinascita.

P.S. Tutto ebbe inizio, probabilmente, da Calcutta, ergo finché c’è Calcutta c’è speranza.

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ph. Credit Rolling Stone Italia

Emanuele Aloia e quel senso di eterno ricercato nell’Arte

Di Alessio Boccali

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Emanuele Aloia, giovanissimo cantautore torinese, sta vivendo un successo immenso grazie al suo “Il bacio di Klimt”, un brano che parla ai giovani (e non solo) con una semplicità e allo stesso tempo una profondità tali da farlo schizzare in vetta alle più note classifiche musicali nostrane e riuscire a conquistare il disco d’oro. Un successo fortemente aiutato dalla piattaforma social Tik Tok, che ha permesso al pubblico di conoscere un ragazzo, un artista, che cerca di imprimere il suo marchio di fabbrica nella musica attraverso originali riferimenti al mondo della storia dell’arte e della letteratura. Questo il resoconto della nostra piacevole chiacchierata:

Ciao Emanuele, innanzitutto, come stai?

Ciao! Tutto bene, sto ritornando a una lenta normalità; faccio musica, anche se quello non ho mai spesso di farlo, rispondo alle interviste… insomma, si ricomincia.

aloia_il_bacio_di_klimt_640_ori_crop_master__0x0_640x360Il tuo brano “Il bacio di Klimt” sta davvero spopolando. Perché questo titolo e perché, secondo te, il Bacio di Klimt è così iconico?

Il titolo nasce dopo la canzone; quando ho finito di scriverla, ho subito pensato che dovesse chiamarsi così. Questo racchiude a pieno il senso del brano. È difficile dare una risposta, invece, sull’iconicità dell’opera d’arte vera e propria. Nell’arte non c’è mai una spiegazione logica che ti motivi il perché questa arriva alle persone; sicuramente ne “Il bacio” una gran parte del lavoro possiamo dire tranquillamente che la fanno i colori, i quali danno al quadro un senso di eternità, che poi è quello che vorrei trasmettere con il mio brano.

Un altro tema portante del singolo è quello della solitudine; problema sempre di grande attualità e che, ora più che mai, con questo virus e questa digitalizzazione del mondo della scuola, rischia di toccare di più i giovani; sei giovanissimo anche tu e tramite i vari social parli molto con tanti ragazzi; cosa vuoi trasmettergli in questi giorni?

Premetto che il brano nasce prima di tutta questa brutta situazione, tuttavia, sono molto fatalista e questa canzone sembra proprio descrivere un momento come quello dal quale ci stiamo lentamente rialzando. Ciò che mi sento di poter affermare è che le emozioni più negative come la malinconia, o appunto la solitudine, fanno parte della vita e vanno sempre affrontate. Bisogna cercare di essere sempre abbastanza equilibrati: sia nel vivere le gioie che nei momenti di tristezza.

Com’è portare la storia dell’arte, la letteratura…, in un’altra forma d’arte come la musica?

Nonostante abbia solo ventuno anni, ho già vissuto diverse trasformazioni su di me, sul mio essere artista. Non sono un esperto d’arte, sebbene ne sia appassionato; sono un tipo soprattutto curioso e mi affascinano la storia dell’arte, la letteratura – che poi in musica diventa quel cantautorato con il quale sono cresciuto – e sicuramente tutto ciò sta incidendo su quello che è il “marchio di fabbrica” della mia scrittura. Scrivo sicuramente meglio di come facevo qualche anno fa, ma naturalmente c’è sempre tanta strada da fare. Sono arrivato al punto, però, di voler affermare una mia precisa identità per differenziarmi e fare la differenza. Sicuramente, questo è un lavoro lungo che richiederà tanto tempo, ma sono sicuro che avverrà tutto in maniera naturale.

L’influenza della musica sull’ascoltatore è cosa nota, soprattutto per quanto riguarda i più giovani. Tu hai una bella responsabilità perché inviti a percepire la bellezza. Quanto è presente questo pensiero quando scrivi e soprattutto quanto pensi peserà questo nel tuo imminente futuro, visto anche il successo de “Il bacio di Klimt”?

Quando hai un pubblico molto giovane – per quanto con quest’ultimo pezzo l’età media del mio pubblico si sia alzata e questo mi fa molto piacere – la responsabilità è sempre più grande. Devi dosare le parole, devi pensare molto a quello che dici. Sono comunque molto tranquillo perché prendo ispirazione dalla bellezza, come dicevi tu, e quindi è difficile sbagliare. L’unica tensione che posso sentire un po’ più forte in questo momento è proprio quella strettamente collegata al successo de “Il bacio di Klimt”. Certamente, ci sarà un determinato tipo di attenzione sulla mia prossima uscita, ma questa oltre che una tensione è anche, e soprattutto, uno stimolo. Sono un tipo molto competitivo e ritengo gli stimoli esterni molto utili. Per quanto riguarda il mio invito a percepire la bellezza nella cultura, che citi nella domanda, mi fa sempre molto piacere quando ricevo dei messaggi da parte di teenager che mi ringraziano per averli fatti incuriosire a quel quadro piuttosto che a quell’autore letterario…

Hai poco più di vent’anni eppure hai comunque una buona gavetta alle spalle…

Scrivo da quando avevo tredici anni e a quattordici avevo già aperto un canale YouTube dove pubblicavo i miei inediti – naturalmente discutibili (ride. n.d.r) -, non ho mai smesso di crederci.

emanuele-aloia-980x551A proposito di YouTube, hai avuto grande successo “social” grazie alla piattaforma Tik Tok; possiamo considerare quest’app come una sorta di nuovo YouTube, naturalmente con modalità estremamente differenti, che può fungere da rampa di lancio per gli emergenti?

Assolutamente sì. Anche se son diversi i tempi di fruizione: su YouTube senti il pezzo intero, su Tik Tok ti entrano in testa delle frasi, degli incisi. L’importante è far capire a tutti è che Tik Tok è solo un mezzo; se un pezzo esplode a caso su quella piattaforma, ma non ha potenzialità per resistere altrove, si ferma là. Tik Tok può lanciarti, ma se poi la tua musica non ha un certo peso specifico, non vai da nessuna parte. Le persone sono molto pigre sui social, se quei pochi secondi di canzone ascoltata in un tik tok ti invogliano ad interessarti di più a quell’artista, significa che qualcosa di quel pezzo gli è rimasto dentro.

Un altro tuo brano che ho apprezzato molto è “Sempre”, uscito anche lui quest’anno, molto interessante anche il video con un altro omaggio letterario…

Son molto contento di parlare di “Sempre” perché quello è un brano molto bello, che però va capito. In un certo senso c’è un filo che lega le mie canzoni più conosciute e lo possiamo racchiudere nel senso di eternità, di cui abbiamo parlato anche prima. “Sempre” non è autobiografica e proprio per il peso che ha questa parola, a ventuno anni non ho scelto di fare un video ufficiale con due ragazzi mano nella mano a rappresentare una promessa d’amore, una scena vista e rivista. Per il videoclip ho scelto invece di prendere in prestito i protagonisti di una saga cinematografica come Harry Potter, che conoscono praticamente tutti, e in particolare provare a raccontare, con la mia canzone, l’amore di Piton per la madre di Harry: un sentimento più forte di tutto, che per proteggere il figlio della donna amata, arriva ad influenzare in negativo il pensiero che le persone hanno di lui. Un amore che si riflette perfettamente nel concetto di eterno.

Progetti futuri? Un album? Hai già le idee chiare su quale sarà il “colore”, il mood dominante di quest’album?

Di album pronti ne avrei veramente tanti per quanto scrivo (ride, n.d.r.). Il mio percorso finora è sempre andato avanti di singolo in singolo, ma “Il bacio di Klimt” ha dato sicuramente un’accelerata che ha portato me e chi mi segue a pensare decisamente a un album. L’obiettivo – non semplice sicuramente – è quello di portare un qualcosa di originale e per farlo c’è bisogno di un po’ di tempo. Uscirà quando, da perfezionista quale sono, sarò convinto al 100% di aver impresso il mio marchio di fabbrica sul lavoro che andrò a presentare.

Emanuele Bianco: “La mia terra” è stabilità affettivo-riflessiva

Di Alessio Boccali
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ph. Alessandro Boggi

Emanuele Bianco, all’anagrafe Emanuele Maracchioni, classe ’93 è un cantautore, musicista e producer romano con un passato da rapper col nome Chabani. Nella sua musica c’è la sua vita, le esperienze che l’hanno formato e continuano a farlo, gli affetti che lo hanno aiutato a crescere personalmente e artisticamente e quella vena rap che non smette mai di pulsare nella fase di scrittura. A circa un mese dall’uscita del suo ultimo singolo “La mia terra”, abbiamo scambiato due chiacchiere per tirare le somme ritrovandoci a parlare di stabilità, di insegnamenti, di ricordi e di tutto ciò che, in fondo, è vita.

Ciao Emanuele, innanzitutto come stai, com’è stato “fare” musica da casa in questi mesi?

Ciao! Sto bene dai, grazie. Diciamo che io vivevo in quarantena già da prima perché stavo sempre chiuso in studio. Per la produzione, soprattutto, ho sempre lavorato molto da remoto. Ti dico la verità: son sempre stato un fan della digitalizzazione. Secondo me, se non pensiamo alla bellezza del “contatto fisico”, lavorare da remoto ha tantissimi lati positivi. Anche perché a Roma per spostarti da una parte della città all’altra butti sempre mezza giornata. In fin dei conti, tralasciando la tragedia dell’emergenza sanitaria, questa situazione ha accelerato un processo che, volenti o nolenti, ci avrebbe prima o poi coinvolti tutti.

Il tuo ultimo singolo “La mia terra” è uscito durante il lockdown; hai sentito ancora di più la responsabilità di dover essere vicino a chi ascoltava questo nuovo brano?

Sì, hai detto una parola molto importante: responsabilità. Io credo che tutti coloro che hanno un pubblico che li segue, più o meno numeroso che sia, debbano tenerne conto. È bellissimo avere un rapporto con chi ti segue, ma è altrettanto importante rispettare queste persone perché l’artista può avere una grande influenza. Soprattutto quando hai a che fare con i ragazzi più giovani, devi essere consapevole che la musica può salvare le persone, ma può anche distruggerle. È importante avere la fiducia delle persone che ti ascoltano e fare musica, fare film, fare un quadro… non è mai un procedimento fine a sé stesso, ma ha sempre un’influenza su chi godrà di quell’arte. Tutti noi siamo stati influenzati dall’arte nella nostra vita, nelle nostre scelte. A maggior ragione oggi che la fruizione dell’arte, in primis della musica e del cinema è veramente immediata grazie a internet.

Mi aggancio a questo per parlare di musica live e concerti in streaming. Abbiamo letto che con le nuove norme a breve sarà possibile, durante questo periodo di emergenza, fare concerti per un massimo di mille persone e sempre a seconda della capienza dei teatri/locali naturalmente e con le dovute distanze. Tanti hanno rinunciato a quest’idea, altri hanno continuato a sostenere la via della digitalizzazione. Immagino sarai d’accordo con questi ultimi…

Il mondo è cambiato, inutile nascondercelo. Stiamo cambiando stili di vita e inserendo nella vita quotidiana nuove abitudini. Il mercato della musica non fa eccezione. Prima si diceva che il pesce grande mangi sempre il pesce piccolo, nell’industria musicale così come negli altri mercati. Oggi penso che sia il pesce veloce a sovrastare il pesce lento. Chi si adatta prima ha la meglio. Credo che questo discorso possa valere anche per il discorso dei live in streaming, che tra l’altro in America tra gli artisti un po’ meno conosciuti è pratica comune. Forse parlo da “malato” di digitalizzazione, ma credo che tra un po’ di anni riusciremo a godere dei concerti con l’audio in 3D e grazie ai visori sfruttando la realtà virtuale. Logicamente la dimensione del concerto dal vivo sarà sempre un’altra cosa e il contro più grande di un evento in digitale è sicuramente, per l’artista, quello di non sentire il calore del pubblico che canta insieme a te e, per il pubblico, quello di non vivere un’esperienza e di condividerla con altri fan nello stesso luogo, nello stesso momento. Un beneficio importante, tuttavia, potrà esserci per gli artisti emergenti. Anche chi non ha un booking o non ha la capacità/possibilità di investire sui propri live, può investire una volta per tutte nell’attrezzatura per i concerti in streaming e può esibirsi praticamente quando vuole. La musica è passata attraverso tantissime rivoluzioni, credo sia fisiologico; bisogna sempre vedere il lato positivo del cambiamento e darsi da fare.

Torniamo a “La mia terra”; L’amore ha una grande importanza nella tua vita e dopo “Tu sei”, che ha superato il milione di views su YouTube, questo brano è l’ennesimo riconoscimento dell’amore per la ragazza che ami, ma è anche la consapevolezza di aver raggiunto un obiettivo nella stabilità affettiva.

“Tu sei” il fuoco di passione che divampa all’inizio di un amore, mentre “La mia terra” è il consolidamento del rapporto, un’acquisizione di maturità. La persona amata è il tuo mondo, la tua quotidianità, la tua stabilità. Ne “La mia terra” racconto di aver raggiunto un equilibrio tra mente e cuore; quando ti trovi in questa condizione riesci a visualizzare tutto il tuo trascorso. Ringrazi le cose che ti son successe, positive o negative che siano state, perché tutte ti hanno formato. È un tirare le somme sulla mia testa calda, sugli obiettivi raggiunti o meno e su tante altre cose per poi mettere tutto questo da parte e pensare con tanta gratitudine solo a quello che ho. Ho imparato che a tutto ciò che succede bisogna dare un significato e, grazie a questo significato, imparare la lezione.

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ph. Alessandro Boggi

Questa grande riflessività è evidente in tutti i tuoi brani, anche i tuoi testi sono molto “lunghi” per il pop; è questo un retaggio del rap, vista la tua esperienza con questo genere?

Sì, sono d’accordissimo. Nella mia musica, nei miei testi c’è molto del mio passato rap. Questa cosa di mescolare il rap al pop mi piace moltissimo, nonostante in alcuni momenti cerco quasi di ammonirmi dicendomi di fare più pause nel cantato; ma è una cosa che mi viene naturale, amo il rap e la sua capacità di poter dire mille cose in un solo pezzo e di poterle dire in un milione di modi differenti. Nel pop questo non è impossibile, è solo più difficile perché inevitabilmente hai meno parole. Io ci sto provando e sono consapevole che devo migliorare ancora tanto. D’altronde il mio motto è sempre stato “O ti formi o ti fermi”.

A proposito di riflessività e di rap, la tua “Manchi” dedicata a Cranio Randagio è da spezzare il fiato; cosa ti legava di più a Vittorio?

Ho tanti bei ricordi di e con Vittorio. Innanzitutto, ogni volta che registravo Cranio imparavo un nuovo termine. Lui scriveva con un registro stilistico troppo alto per l’Italia. Era troppo. Vittorio, poi, era una persona di spessore oltreché un artista con la A maiuscola. E ogni volta che parlo di lui è questo che mi piace ricordare e raccontare a chi non ha avuto la fortuna di conoscerlo. Nella sua arte era libero, spesso utilizzava delle parole, delle metafore, che potevi starci a pensare per ore; non puoi capire quante volte gli dicevo di alleggerire un po’ la scrittura per arrivare a tutti o di fare un ritornello cantato. Un compromesso lo trovammo in “A Selfish Selfie”, che infatti “contaminò” più persone pur non snaturando l’anima di Cranio Randagio.

Non sarò il primo che te lo chiede e non vuole essere un giudizio, ma più una curiosità. Da cosa nasce quel “Keep it secret” tatuato sul viso? Da quello che ci siamo detti, sono certo che abbia un senso profondo.

Innanzitutto, ti dico che quando me lo son tatuato, mia madre non mi ha parlato per tre mesi (ride, n.d.r.). A parte gli scherzi, a me piacciono tanto i tatuaggi e quella scritta ha dei significati. Innanzitutto, mi ritengo una persona della quale ti puoi fidare, e questo è il significato più “accessibile”, l’altro senso riguarda il mio essere abbastanza introverso. Con la musica questa chiusura viene meno e riesco a parlare di ciò che ho visto e sentito. Quindi diciamo che è anche un po’ una garanzia sulla mia veridicità.

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ph. Alessandro Boggi

Tornando ai tuoi pezzi. Prima abbiamo parlato di stabilità riflessiva raggiunta grazie alla stabilità affettiva raccontata ne “La mia terra”, in “Sotto la Torre Eiffel” parli di amore a distanza. Così è più difficile raggiungere quelle stabilità, non trovi?

Io penso che quando ti impegni in un rapporto scegli di vivere delle esperienze rinunciando ad altre. Tra le cose che scegli di vivere ci sono la stabilità della quotidianità, la sicurezza di avere una persona sempre vicina, il rapporto fisico e tante altre cose. Con un amore a distanza non è che sia impossibile portare avanti tutti questi aspetti, ma è molto difficile prendersene cura. Vivere una persona tutti i giorni, vederla, parlarci e confrontartici rende più semplice le cose e ti permette anche di capire meglio ciò che provi. La lontananza da “La mia terra”, dalla persona che amo, renderebbe inevitabilmente instabile anche la mia vita e penso anche quella della mia lei.

Finiamo parlando del disco che, se non erro, dovrebbe uscire dopo l’estate. Giusto?

Sì, diciamo che siamo in fase di finalizzazione. Ho contato molto come sempre sulla mia produzione perché mi piace molto dar forma alla mia musica anche se non disdegno le coproduzioni con chi naviga sulla mia stessa lunghezza d’onda. Le canzoni uscite finora sono molto eterogenee e vengono da diversi periodi della mia vita, col disco è arrivato il momento di dare l’imprinting giusto al mio percorso. La via scelta sarà quella dell’acustico, che dà quel mood che trovi al massimo in “Tu sei”.

Finiamo parlando del disco che, se non erro, dovrebbe uscire dopo l’estate. Giusto?

Sì, diciamo che siamo in fase di finalizzazione. Ho contato molto come sempre sulla mia produzione perché mi piace molto dar forma alla mia musica anche se non disdegno le coproduzioni con chi naviga sulla mia stessa lunghezza d’onda. Le canzoni uscite finora sono molto eterogenee e vengono da diversi periodi della mia vita, col disco è arrivato il momento di dare l’imprinting giusto al mio percorso. La via scelta sarà quella dell’acustico, che dà quel mood che trovi al massimo in “Tu sei”.

Cannella: “Oggi ciò che scrivo mi fa stare a mio agio con quello che sono e con quello che ero”

Di Alessio Boccali
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ph. Piermattei

Enrico Fiore, in arte Canella, nasce a Roma venticinque anni fa e da venticinque anni ne è follemente innamorato. Il 21 aprile 2020, giorno del compleanno della Capitale, è uscito per Honiro Ent il nuovo singolo“Foro Italico”, un omaggio sicuramente alla città, ma anche – e soprattutto  – un invito a dare il giusto valore alle situazioni e alle persone che per noi contano veramente. Ho parlato con Cannella del suo futuro musicale al quale “Foro Italico” farà da apripista e della nostra città, poche ore dopo l’inizio della famosa fase due dell’emergenza COVID-19, che lentamente, ci auguriamo, possa riportarci alla “normalità”.

Ciao Enrico, innanzitutto, come stai?

Sto bene, dai, stamattina, poi, ho iniziato la giornata col sorriso perché aprendo il giornale ho letto un articolo su di me (ride, n.d.r.). In questi giorni si prova a tornare a un briciolo di normalità: per fortuna, sono riuscito a ricongiungermi con la mia fidanzata e a tornare in studio a lavorare un po’ sulla mia musica. Son stati due mesi durissimi per me, come per tutti, fortunatamente c’è sempre stata la musica, ma è stato duro anche trovare l’ispirazione in una situazione del genere.

Il 21 aprile, però, è uscito il tuo brano “Foro italico”? Com’è nato, cosa rappresenta?

Questo brano, come tutta la mia musica, nasce dalle mie esperienze, soprattutto dai momenti un po’ più bui della mia vita. “Foro Italico” è la prima canzone che ho scritto dopo l’uscita del mio ultimo album “Siamo stati l’America” a maggio 2019. Quello è stato un periodo molto pieno per me, stavo ricevendo parecchie soddisfazioni dai miei lavori e la musica, da quello che era un sogno, stava divenendo un qualcosa di veramente concreto; a livello personale, però, mi stavo perdendo qualcosa, stavo trascurando un rapporto dimenticandone il giusto valore. A causa di quella distrazione, mi son ritrovato da solo, a scrivere questa canzone e a rendermi conto di aver bisogno di quella persona che cerco tra le note del brano. “Foro italico” ha per me un grande valore proprio perché mi ha aiutato a fare un passo verso ciò che stavo perdendo. Il disco che verrà partirà quindi “male” per poi raccontare questa mia risalita personale.

E proprio ascoltando “Foro italico” è evidente che questo anticipi un nuovo cammino sonoro, e non solo personale, per te…

Assolutamente. Questi, poi, sono processi che avvengono in maniera totalmente spontanea. Sono maturato nella scrittura e, grazie anche alla mia producer Marta Venturini, sono arrivato a una chiave sonora del tutto nuova, riconoscibile, diversa dal mio passato, ma anche da quello che si sente nel nuovo pop italiano.

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Scendendo nel dettaglio, ho letto che identifichi questo nuovo percorso sonoro in un mix tra rap e melodia. Tu hai già un bagaglio rap sulle tue spalle, non ti scopriamo rapper oggi, è stato comunque difficile arrivare a questa commistione?

Le radici non si abbandonano mai del tutto. Vengo dal rap, più o meno puro, e poi crescendo mi sono avvicinato molto al pop cantautorale; nel nuovo disco, però, ho notato effettivamente quanto quella ricerca di ritmo, quel rap che mi scorre da sempre nelle vene sia riemerso in superficie. Si è quindi creato questo mix che sembra funzionare e che mi piace molto.

Restiamo su questo mix. Anche il tuo nome d’arte CANNELLA nasce dalla riflessione tua e del tuo amico Niccolò (Ultimo) su quel mix tra dolce e salato caratteristico dell’omonima spezia e che sembra perfetto per identificare il tuo mood di artista. È stato difficile mantenere il tuo essere CANNELLA nella transizione di cui parlavamo prima?

Questo è proprio uno di quei problemi che si pone sempre un artista quando passa dal fare un genere di musica ad un altro. È un incubo che ha tormentato anche me durante la stesura del mio primo disco proprio perché venivo da un altro mondo musicale e mi stavo accingendo a conoscere un mio nuovo ego artistico. Adesso, però, è stato tutto più facile. Semplicemente non mi sono posto tante domande. In questo modo mischiare questi miei due lati artistici è stato totalmente naturale. Oggi ciò che scrivo mi fa stare a mio agio con quello che sono e con quello che ero.

Da buon romano come me, sei molto attaccato alla nostra città. Quanto conta Roma per la tua arte? E che effetto ti ha fatto, in questi giorni terribili, vedere le immagini della nostra città vuota?

Prima che da artista, il vedere Roma soffrire in questo modo mi ha fatto male da cittadino. Poi, per carità, il fascino della nostra città è sempre immenso. Diciamo che insieme al sentire le notizie collegate all’emergenza sanitaria, il vedere una Roma vuota è stato un colpo al cuore. L’artista, poi, ha sentito la nostalgia delle storie che Roma sa donarti: dai luoghi della città, alle persone che la popolano da mattina a sera. Come artista sono una spugna e non assorbire più questi pezzi di vita, ma essere costretto tra le quattro mura di una casa, è stato come non trovarsi più a Roma, come abbandonare quella che rappresenta, e sempre rappresenterà, lo scenario musicale di ogni mio brano.

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ph. Piermattei

Anche la musica è stata duramente colpita da questa situazione di emergenza e il futuro dei live è più che mai incerto. La trasmissione di concerti in streaming potrebbe essere una soluzione momentanea anche per quegli artisti che non sono ancora né Vasco Rossi né Jovanotti?

Più che una soluzione, al momento sembra l’unica alternativa possibile. L’artista vive di live, di sinergia con il pubblico. Lo streaming attualmente è ciò che sta mandando avanti la musica e ci sta permettendo di uscire con nuovi lavori anche in questo periodo. Probabilmente lo stato di emergenza ha solo acuito l’importanza del digitale nella nostra epoca e sono certo che anche noi giovani artisti potremmo continuare a giovare di questa “digitalizzazione” sfruttando i vari canali a nostra disposizione per far conoscere la nostra musica.

L’estate si avvicina, anche se sarà una stagione decisamente particolare, il tuo prossimo singolo si candida ad essere una hit radiofonica, magari, per esorcizzare?

Beh, nel disco che uscirà probabilmente con l’anno nuovo ci saranno dei pezzi radiofonici. Già il prossimo singolo, che uscirà a giugno, però, sarà una hit anti-estiva molto radiofonica, che ha rappresentato una sfida particolare per me. Vedrete… anzi, ascolterete.

Per chiudere, qual è la prima canzone che canterai quando potrai salire nuovamente sul palco e perché?

È tosta, ma, per quello che sento oggi, penso proprio a “Foro Italico”. Non ho mai potuto suonarla dal vivo e sono molto curioso di vedere l’effetto che fa se suonata dal vivo, con l’arrangiamento adatto al live.

SERENA BRANCALE

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Una vita d’artista per raccogliere le esperienze vissute

di Francesco Nuccitelli

Serena Brancale è un’artista a 360° dotata di grande ironia e grande talento. Giovane, eppure già con diverse collaborazioni importanti alle spalle come quelle con il Volo e Mario Biondi. “Vita d’artista” è il suo ultimo progetto all’attivo, ma già molto bolle in pentola.

Ciao Serena, “Vita d’artista” è il tuo ultimo impegno discografico. Cosa ci puoi raccontare di questo progetto?
“Vita d’artista” nasce in realtà tre anni fa. Anche perché ci sono delle canzoni che ho scritto prima di pensare all’album. Nasce dall’esigenza di cogliere le esperienze di vita che ho vissuto. Un progetto diverso dal mio penultimo lavoro “Galleggiare”. Insomma, una vera scommessa.

Vedendo i tuoi social ami molto giocare con i tuoi followers e raccontare i tuoi vari backstage. Quanto pensi siano utili i social per un cantante?
Io trovo fondamentale l’uso dei social. Nei primi anni mi sono divertita a far emergere la mia parte più ironica. Ora li sto utilizzando in maniera più seria. La gente vuole vedere anche il dietro le quinte, è curiosa del comportamento di un artista nel backstage. L’importante è essere sempre naturali, questo è davvero importante.

L’illusione del controllo in ambito musicale può essere un problema per un cantante?
Bisogna essere sicuri di quello che si sta proponendo. Perché poi devi essere anche capace di non offenderti e non indurirti quando le cose non vanno bene. È una domanda molto delicata. Ci sono nei momenti in cui l’artista non riesce a dare 100, ma è normale che arrivi anche questo momento. È una sorta di altalena.

Cosa ne pensi degli artisti che si sono reinventati seguendo la moda o il genere musicale del momento?
Anche questa è una domanda delicata. Io certo seguo la moda, però poi, quando mi metto al pianoforte canto quello che mi viene meglio da raccontare. Io “amo l’amore”, amo il gusto, amo la musica in tutte le sue forme. Non mi creo problemi, penso alla cosa migliore che posso fare e la faccio al 100%.

In conclusione, nel nuovo festival di Sanremo ci sarà il ritorno della categoria nuove proposte. Cosa ne pensi di questa scelta visto che ci sei passata?
Nel mio caso sono stata fortunata perché ho cantato anche se non ho vinto. Però, se devo essere onesta preferivo la formula che ha visto vincere Mahmood. Perché spesso ci troviamo dei cantanti che arrivano e non si sa bene perché stiano lì. Anche se quello che dico è un po’ il contrario di quello che è accaduto a me.

RAIGE, “Affetto Placebo”mi ha aiutato a prendere coscienza di chi sono oggi e ad andarne molto fiero.

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Di Alessio Boccali

“Affetto Placebo” è un disco che ci restituisce un RAIGE totalmente artefice del suo destino, un artista maturo che, nella sua cifra stilistica pop-urban, è riuscito a trovare una chiave originale per dare tutto se stesso ed esprimere concetti concreti e mai banali: all’individualismo della società, alle ansie e alle mille preoccupazioni che abbiamo, possiamo trovare una soluzione nei rapporti che creiamo.

Ho incontrato Alex (RAIGE, n.d.r.) in un pomeriggio tempestoso di un maggio che sembra più un novembre, e prima del suo firmacopie alla Discoteca Laziale ci siamo presi un attimo di tempo per chiacchierare del suo “Affetto Placebo” accompagnati dal rumore della pioggia sul tetto di vetro che ci ha tenuti al riparo.

Insomma Alex, “giochiamo” un po’ con i tuoi nuovi brani: “Com’è successo” che sei arrivato a questo nuovo disco quando, come canti, avevi quasi spento i sogni?

Proprio per questo nasce “Affetto Placebo”. Questo disco è frutto della necessità di un disagio e della voglia di tirar fuori qualcosa che mi premeva da dentro. Infatti, è il primo disco, dopo tanto tempo, che non nasce da esigenze contrattuali. Sono riuscito a slegarmi dalla mia precedente etichetta e ho scelta di dare vita a un disco che nasce esclusivamente da un’esigenza artistica.

Nella title track “Affetto Placebo” canti che ciò che non ti ha ucciso, ti è rimasto sulla pelle: quanto è stato difficile esporre così tanto il tuo lato più intimo e le tue fragilità?

Non ho mai avuto paura di dare il 100% di me stesso nella mia musica, questa volta però è stato liberatorio. Quindi non è stato difficile, è stato d’aiuto. Ti dico solo che quando scrivevo “Alex”, il mio ultimo album con la major, molti dei miei pezzi furono esclusi proprio perché troppo personali e sostituiti con pezzi scritti da altri autori. Questo disco mi ha aiutato a prendere coscienza del processo che mi ha portato ad essere chi sono oggi e ad andarne molto fiero. Il pubblico, poi, sembra apprezzare: mai come adesso, nemmeno nel post-Sanremo, ho avuto così tanti ascoltatori su Spotify e questo mi fa presagire e sperare che sto facendo davvero la cosa giusta.

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Con questo disco il tuo obiettivo resta quello di raggiungere il pubblico pop con uno stile urban, comunicando concetti concreti e difficili da comunicare con sonorità spesso, almeno all’apparenza, leggere…

“Affetto Placebo” assomiglia molto in termini stilistici a un altro mio disco, che amo molto, che si chiama “Addio”. In generale, anche nel mio primo disco “Tora-Ki”, considerato da molti un pilastro del rap italiano, io cantavo i ritornelli. Per me è proprio fondamentale questo mix pop-urban: fa parte di me.

In “Davvero”, poi, canti “È bastato che perdessi un treno per incontrarti dentro alla stazione…”: una metafora della vita, nella quale spesso non bisogna affidarsi istintivamente solo al carpe diem?

“Davvero” è un po’ una mosca bianca nel disco: per esempio, è l’unico pezzo d’amore felice oppure è nato al CET di Mogol mentre il resto del disco è stato scritto sull’asse Torino-Milano. In questo pezzo ribalto i luoghi comuni e l’amore, come ogni altra cosa bella, spesso è solo questione di casualità e occasioni fortuite.

In questo disco c’è un pezzo che mi ha colpito molto, che si intitola “Asia”. Mi ha colpito particolarmente soprattutto il ruolo dello specchio in questa canzone. Questo specchio, poi, mi ha rimandato ad un altro tuo brano, di qualche anno fa, che è “Ulisse”. In quest’ultimo il ragazzo si serve dello specchio per recuperare una dignità e apparire forte davanti agli altri, mentre la protagonista di “Asia” guardandosi allo specchio non si riconosce. C’è un messaggio dietro rivolto a una società che premia sempre più l’apparire, a discapito dell’essere?

Quello sicuramente, soprattutto se pensiamo al paragone che hai fatto. In realtà nell’intenzione, il pezzo parla di una ragazza che ancora non ho conosciuto, ma della quale sono già follemente innamorato. Lei si trova in una grande città, lontana dai suoi cari e si scopre più debole di quanto pensasse. A quella ragazza io suggerisco di guardarsi allo specchio e di stare tranquilla perché, anche se la vita non è perfetta, lei la sua strada, prima o poi, la troverà. Il velo di malinconia che avvolge il pezzo è, quindi, sempre bilanciato dalla mia volontà di trovare la luce.

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In un disco così personale, non poteva mancare una piccola reunion con gli altri OneMic (tuo fratello Ensi e Rayden). Il pezzo che cantate si chiama “Scuola Calcio” ed è un bel paragone tra la vita e il calcio, all’interno del quale citate tante bandiere di questo sport…

Il calcio nei campetti insieme agli amici mi ha formato parecchio. Pesavo 120 kili, era chiaro che non sarei mai diventato un campione, ma lì ho imparato a buttare il cuore oltre l’ostacolo, a correre, a sudare per dei valori, per dare il 100% a chi dava il 100%. Questa per me è una bella metafora della vita. Nel ritornello dico “A diventare grandi ci vuole coraggio, capire se tirare o se fare un passaggio. La vita è la più grande scuola di calcio che c’è…”. In un momento di grande individualismo, capire che invece di tirare tu, puoi passare il pallone a qualcun altro che è più bravo a fare gol, è una forte prova di coscienza. Nella domanda hai parlato delle bandiere che citiamo nel pezzo; beh, quello che è successo di recente a campioni come Del Piero, Marchisio, Buffon e di recente a De Rossi, ti fa capire che il concetto di individualismo in questa società è ben radicato. Eppure, son convinto che tutto questo passerà e torneranno i tempi d’oro delle bandiere. La storia è ciclica, anche per questo ho scritto un album così.

Il futuro?

Finisco la promozione e poi mi prendo un periodo di pausa all’interno del quale faccio tre cose stupende. La prima non posso ancora raccontartela, la seconda riguarda la stesura del mio secondo romanzo e la terza riguarda la preparazione che porterà al tour, che partirà, presumibilmente, ad ottobre e che sarà completamente in unplugged, voce – chitarra – batteria.

Le pagelle di Musica Zero Km dopo la prima serata del Festival di Sanremo 2019

Direttamente dalla Sala Stampa Lucio Dalla del Palafiori di Sanremo queste sono le nostre impressioni (e le nostre pagelle) dopo l’ascolto dei 24 brani in gara durante la prima serata del Festival di Sanremo.

Francesco Renga – “Aspetto che torni”

Francesco – Testo impegnato e si vede la mano di Bungaro. Lui scende tra il pubblico e dimostra la sua sicurezza. Sufficiente, ma da lui, ci si aspetta di più. 6

Alessio – Testo buono (Chiodo-Bungaro sono una coppia goal), ma da Renga ci si aspetterebbe molto di più. Il problema, forse, è che a Sanremo la sua “Angelo” viene sempre ricordata, ma mai superata. 5

Livio Cori e Nino D’Angelo – “Un’altra luce”

F – Problemi tecnici per il duo, ma nonostante ciò, l’esibizione è sofferta e sofferente. Un padre che parla ad un figlio. Emotività al massimo. 6.5

A – Iniziano col freno a mano tirato (colpa dei problemi tecnici), ma subito dopo l’amalgama delle due voci inizia a funzionare bene e l’appello di un padre a un figlio disilluso è da lacrimuccia. 7

Nek – “Mi farò trovare pronto”

F – Testo elementare ed esibizione non da Nek. Poca energia e poca grinta. Troppa emozione? 5.5

A – Mi aspettavo una “Fatti avanti amore” parte 2, invece è anche peggio e poco radiofonica. 4

The Zen Circus – “L’amore è una dittatura”

F – Questo è il Festival dei testi impegnati. Gli Zen non si fanno mancare nulla, il brano è un pugno nello stomaco. Esibizione da primo maggio, forse lontano dai ritmi sanremesi 6.5

A – Testo da Zen, esibizione da Zen. I ragazzi non si sono snaturati e, nel loro caso, va bene così. Il pezzo non è “sanremese”, ma il coraggio e la loro autenticità vanno premiati. 6.5

Il Volo – “Musica che resta”

F – Connubio perfetto tra rock e lirica (si sente la mano della Nannini sulla musica). Perfetta l’esibizione, che altro dire? 7.5

A – Non è “Grande amore” ed è già qualcosa, lo stile de Il Volo però è quello e a parte qualche graffio regalato dalla penna della Nannini, non mi entusiasma. Sufficienza perché voci del genere vanno comunque apprezzate. 6

Loredana Bertè – “Cosa ti aspetti da me”

F – Il pezzo Rock del Festival per la musicalità e pop per il testo. Interpretazione pazzesca per Loredana. 7

A – Pezzo più pop dello standard berteiano. Siamo più vicini all’ultima Loredana che alla storica, eppure la verve sembra quella dei tempi d’oro. Il testo, nonostante la penna di Curreri, la penalizza. 6

Daniele Silvestri e Rancore – “Argentovivo”

F – Duetto perfetto. Silvestri mette tanta esperienza e Rancore tanta freschezza. Il pezzo merita ed è forte emotivamente parlando. La musica e il testo sono legati alla perfezione. 9

A – Il pezzo di Silvestri e Rancore è un pugno duro allo stomaco. Uno di quei colpi che a Sanremo fa anche piacere ricevere. C’è il testo, c’è il sound e sul palco ci sono Silvestri e Rancore! Colleghi o semplici amanti della musica italiana, citate sempre entrambi! 9

Shade e Federica Carta – “Senza farlo apposta”

F – Lei porta il coraggio per entrambi. Lui troppo intimorito dall’Ariston. Canzone radiofonica, ma non da Festival. 6-

A – Lei è giovanissima, ma ha un bel prospetto davanti. Lui è troppo emozionato e l’esibizione ne risente. Il pezzo non è bello, ma, come sempre, è questione di gusti. 5

Ultimo – “I tuoi particolari”

F – Tanta sensibilità per Niccolò, prima al piano e poi sul palco. All’interno si sente molto Moro. Vedremo una super esibizione nella serata dei duetti. 7.5

A – A Niccolò voglio bene, a Niccolò davanti al piano voglio ancora più bene. Il pezzo è abbastanza da Ultimo, magari meno immediato del brano dello scorso anno, e l’esibizione è minuziosamente curata. Apprezzabile ancor di più dopo il primo ascolto. 8

Paola Turci – “L’ultimo ostacolo”

F – Mi aspettavo più grinta dalla Turci. Un pezzo sicuramente più sanremese, ma meno nelle sue corde. Comunque, buona performance. 6.5

A – È una Turci che ricorda molto Irene Grandi, il pezzo è sanremese, ma poco graffiante. Senza infamia e senza lode. 6

Motta – “Dov’è l’Italia”

F – Adattato al festival. Bel pezzo, ma forse non del tutto capito al primo ascolto. 6.5

A – La penna di Motta scrive molto bene e si sente, il pezzo è bello e leggermente più pop del suo solito. Non vincerà, ma è una delle più grandi dimostrazioni di come il cantaurato italiano abbia ancora qualcosa da dire. 8

Boomdabash – “Per un milione”

F – La prima canzone ballabile e leggera a Sanremo. Freschi, nuovi e bravi. Bel brano e bella esibizione. 6.5

A – Il pezzo più movimentato del Festival. Si sente tutto il Salento nella loro esibizione, il testo è volutamente leggero. Portano allegria e ci ricordano che la musica è anche intrattenimento. 6.5

Patty Pravo e Briga – “Un po’ come la vita”

F – Ancora problemi tecnici al Festival. Per fortuna c’è Patty, che con tanta ironia salva la situazione. Buona performance, ma merita un ascolto più tranquillo. Bene anche Briga, forse intimorito per l’esordio. 6

A – Problemi tecnici a parte, l’accoppiata non mi convince. Rimandati alla seconda esibizione visto la caratura artistica della Pravo e il talento della penna, forse spesso sottovalutata, di Briga. 6

Simone Cristicchi – “Abbi cura di me”

F – Non è una semplice canzone, ma è una poesia. L’unico artista in grado di creare pezzi del genere. 9

A – Vorrei saper scrivere come Simone Cristicchi, l’ho scritto ormai ovunque, su qualsiasi social. Il suo brano è un monologo emozionante da ascoltare con attenzione, il testo è da libro di letteratura. 9

Achille Lauro – Rolls Royce

F – Curioso fino all’ultimo e piacevolmente sorpreso da Rolls Royce. Il Vasco Rossi 2.0. 7

A – Vasco è tornato a Sanremo e veste Achille Lauro. Il ragazzo dimostra di saperci fare e anche Boss Doms dietro a lui sfodera una performance rock che sorprende. Bella sorpresa che non conoscerà via di mezzo: o arriverà sul podio o ultimo. 8

Arisa – “Mi sento bene”

F – Voce spettacolare di Arisa, ma il brano è troppo delicato per il festival. Più da musical. 6

A – A me Arisa non piace e quindi potrei essere di parte nel giudicarla male, ma oggettivamente il pezzo sembra un classico disneyano: Frozen che incontra Mary Poppins e insieme cantano sotto la neve o la pioggia. 4.5

Negrita – “I ragazzi stanno bene”

F – Grande ritorno per i Negrita. Il loro pezzo della maturità al festival. 6.5

A – “I ragazzi stanno bene” e si vede. Tornano a Sanremo per riscattarsi più che per vincere. Il loro obiettivo l’hanno già raggiunto. 6.5

Ghemon – “Rose viola”

F – Bel pezzo, anche se l’ora tarda non lo ha aiutato. 6.5

A – L’eleganza e il soul dei suoi brani sono oramai inconfondibili. Il pezzo non è fra i suoi migliori, ma è comunque un buon bigliettino da visita da presentare a chi ancora non lo conosceva. 7

Einar – “Parole nuove”

F – Grande coraggio per Einar nell’esibirsi alle 00:27. Brano fragile e performance non di altissimo livello. Ancora acerbo per stare tra i Big di Sanremo. 6

A – Esordisci al festival e lo fai dopo la mezzanotte, nonostante questo l’emozione non lo sovrasta più di tanto. Il problema è che il brano è davvero poca cosa. Gli auguro soltanto che questa precoce promozione tra i big non lo bruci. 5

Ex-Otago – “Solo una canzone”

F – La band genovese si è reinventata per Sanremo. Brano tipicamente sanremese, ma che funziona bene. 7

A – Maurizio Carucci, frontman della band, è un uomo di sani principi e lo si vede nella scrittura e nell’abbraccio a fine esibizione, che non può passare inosservato ad un romanticone come me. Il brano è fuori dalla comfort zone degli Ex-Otago, ciò nonostante porta a casa il suo compitino con un sound sanremese. 6.5

Anna Tatangelo – “Le nostre anime di notte”

F – Altro ritorno importante al festival. La Tatangelo è tra le ultime ad esibirsi e forse questo è stato un limite per lei. 6

A – Sarà l’ora tarda, sarà che il pezzo non è particolarmente travolgente, ma la sua esibizione scorre via senza quasi accorgermene. 5

Irama – “La ragazza con il cuore di latta”

F – Tra i candidati alla vittoria finale. Il testo è importante e il coro gospel si lega alla perfezione con Irama. 7.5

A – Il testo è bello ed emozionante, l’esibizione emozionata, ma buona. Il ragazzo sa scrivere, questo è indubbio, aspetto la seconda esibizione per capire se può essere uno dei suoi cavalli di battaglia per il futuro. Per ora è una bella sorpresa. 7.5

Enrico Nigiotti – “Nonno Hollywood”

F – Tra i testi più belli di questo festival. Emozione pura e splendida esibizione. 8

A – Commovente, emozionante ed emozionato. Enrico Nigiotti ha una bella penna, ora ha bisogno del suo bell’orto da coltivare, un orto che darà sicuramente i suoi frutti. 8.5

Mahmood – “Soldi”

F – Ventiquattresimo artista ad esibirsi, solo per questo andrebbe premiato. La canzone merita e lui è veramente forte. 7.5

A – Ultimo ad esibirsi, menomale che ha un pezzo coinvolgente e ben scritto. La sala stampa applaude a tempo nonostante sia già passata l’una di notte. Un altro fiore da coltivare e di cui bisogna ricordarsi anche dopo l’ondata sanremese. 7.5