Caro Coez, grazie per tutto il casino fatto all’Ex Dogana!

19578429_10211962309566563_1619308661_n“Caro Silvano, t’ho conosciuto che eravamo quattro gatti e mo’ semo in quattromila”

Perdonerete questo esordio in vernacolo, ma è la prima cosa che ho pensato quando ieri sera ho visto il “tutto esaurito” registrato dal concerto di Silvano Albanese aka Coez all’Ex Dogana di Roma per il Viteculture Festival.

Di acqua ne è passata dai tempi de Il Circolo Vizioso prima e dei Brokenspeakers poi e l’affetto del pubblico per il ragazzo nato a Nocera Inferiore, ma da sempre romano, è cresciuto esponenzialmente.

Una carriera partita nel nome dell’hip hop e del rap “puro” ed ora sempre più influenzata dal pop, che sta finalmente dando a Coez tante e meritate soddisfazioni . Soddisfazioni che arrivano anche dai cosiddetti addetti ai lavori, e che si sono concretizzate, proprio ieri sera, nel disco d’oro per il singolo “Faccio un casino” ritirato sul palco insieme a Niccolò Contessa.

Ma concentriamoci sul concerto. Ieri sera all’Ex Dogana si è esibito un Coez davvero in grandissima forma, che ha ripercorso tutte le sue tappe più importanti da solista ed ha duettato con gli amici e colleghi Gemello, Gemitaiz, Niccolò Contessa e Lucci in un clima di festa incredibile. Da “Ali Sporche” a “Faccio un casino”, passando per “Hangover”, “Forever Alone”, “Lontana da me” e tante altre, l’ex Brokenspeakers ha sfoderato tutto il suo repertorio in un concerto che di certo resterà a lungo negli occhi e nelle orecchie del pubblico, che non ha mai smesso di cantare.

Insomma, quello andato in scena ieri sera è stato un vero e proprio atto d’amore tra Coez e il pubblico, che, recuperando il dialetto messo in grande spolvero in apertura e parafrasando la hit del rapper, potremmo riassumere così: “Amiamoci e famo un casino!”

 

Wonder Woman – La recensione in anteprima (senza spoiler)

Wonder Woman, diretto da Patty Jenkins. Cast: Gal Gadot, Chris Pine, Robin Wright, Connie Nielsen, David Thewlis. Prodotto  e distribuito da Warner Bros. Pictures e DC Entertainment. Uscita nelle sale italiane: 1 Giugno.

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La pellicola dedicata alla Principessa delle Amazzoni è la storia di una bambina incosciente, che diventa dea tra gli uomini.

Portare per la prima volta al cinema Wonder Woman non era un compito facile. Vuoi per il canone inculcato nel grande pubblico dalla celebre serie tv degli anni ’70 con Lynda Carter, vuoi, soprattutto, perché qui stiamo parlando di una vera e propria icona dell’emancipazione femminile e del progressismo: nata nel 1941, lo psicologo William Moulton Marston modellò i tratti da pin-up dell’eroina su una sua assistente con la quale lui e la moglie avevano una relazione aperta. Tanto per dire. In aggiunta poi, per alzare ancora un po’ la pressione, ricordiamo che Wonder Woman arriva dopo le critiche non proprio entusiaste riservate alle prime tre pellicole del DC Extended Universe, affibbiando così alla regista Patty Jenkins, al suo secondo lungometraggio (13 anni dopo Monster), la responsabilità di sfornare una pellicola che potesse finalmente soddisfare appassionati, critica e pubblico.

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Ecco, aiutata da un’ambientazione storica ben distante dal macrocosmo DC, il primo pregio di Wonder Woman è quello di non guardare al passato ma voler sin da subito ribadire la scelta di intraprendere una direzione abbastanza diversa, abbandonando i toni eccessivamente seriosi di Batman v Superman in favore di un intrattenimento più puro e, forse, più onesto. Non mancano, infatti, le gag e le battute (e c’è da dire che queste fanno sorridere per davvero), che giocano soprattutto su una doppia condizione di straniamento che si ritrova prima nel pilota Steve Trevor (interpretato da Chris Pine), catapultato nella mistica isola di Themyscira, e poi nella stessa Diana Prince (Gal Gadot), che deve fare i conti con il “mondo esterno” dopo essere cresciuta nascosta e distante da esso.

Essendo questo Wonder Woman prima di tutto una storia d’origini, l’impostazione è quella abbastanza classica della struttura in tre atti: conosciamo prima la luminosa isola delle amazzoni di Themyscira, dove scopriamo con alcuni espedienti la storia e il contesto nel quale siamo immersi, ma tutto cambia quando un pilota britannico precipita dal cielo proprio nelle acque della paradisiaca isola (l’utilità dello scudo protettivo magico è un dubbio che ci pervade), facendo conoscere poi a tutte le Amazzoni l’esistenza di una guerra che sta devastando il mondo. Sarà proprio questa rivelazione a far compiere a Diana la decisione di abbandonare il luogo di nascita per dirigersi verso il mondo esterno, credendo di poter porre fine alle ostilità.

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È proprio la dualità tra i personaggi di Gal Gadot e Chris Pine ad essere il perno attorno al quale ruota tutta la pellicola: si gioca su due mondi diversi che si toccano, contrapponendo la luminosa realtà dell’isola mistica delle Amazzoni ai colori desaturati del fronte di Guerra. Interessante l’interpretazione del concetto della guerra vera e propria per le due parti: vista come un nemico da abbattere per l’eroina, quanto invece come un’entità con la quale si deve convivere per gli uomini, dalla quale essi sono attratti ma che allo stesso tempo vorrebbero ripudiare. Complice dell’efficacia di questo sottotesto sia l’alchimia dei due attori, che funziona molto bene nonostante il risvolto romantico sia di una banalità sconcertante, quanto soprattutto la scelta dello script di voler evitare un femminismo eccessivo (come era successo ad esempio nel recente remake dei Ghostbusters), rendendo il film estremamente femminile senza tuttavia ridicolizzare le figure maschili.

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Fila tutto liscio, quindi? Non proprio: se il primo e il secondo atto del film funzionano abbastanza bene, tutta la parte finale della pellicola ripiomba nella dimostrazione di come ancora una volta sia considerato impossibile sfuggire al cosiddetto canovaccio supereroistico della “boss fight” con il cattivone di turno. Lo scontro finale, oltre a ricordare veramente tanto quello che abbiamo visto, ahimè, in Batman v Superman, arriva veramente a casaccio e in alcuni punti rasenta il ridicolo, complici una CGI videogiocosa, una scelta di casting incomprensibile e alcune frasi dette qua e là nel corso della lotta decisamente risparmiabili.

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I difetti di Wonder Woman ci sono quindi, e non sono pochi, ma c’è da dire che per tutta una serie di fattori e per la struttura generale risulta forse più facile perdonarli qui che in altre occasioni, tanto da poter essere considerato sicuramente il film nel complesso più riuscito tra i quattro sfornati dalla DC fino ad ora. Il più grande merito è sicuramente quello di reggersi su un’interprete incredibile, attorno alla quale la pellicola è interamente modellata, dotata di una bellezza e di una grazia straordinarie. Onnipresente in ogni scena, la modella israeliana Gal Gadot riesce ad essere tanto efficace nelle  sequenze di combattimento quanto magnetica in quelle dove veste i panni civili: spazzati via tutti i dubbi che ancora potevano rimanere sulla sua scelta di casting, per noi adesso lei è diventata veramente l’unica Principessa delle Amazzoni, e forse uno dei principali fattori che ci spinge ad avere ancora fiducia nel prossimo film sulla Justice League.

 

La recensione de I Guardiani della Galassia Vol.2: brutti, sporchi e cattivi

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Ironico, immaginifico e, estremamente, permaloso. Questo è I Guardiani della Galassia Vol. 2

La recensione de I Guardiani della Galassia Vol. 2, scritto e diretto da James Gun con Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista, Michael Rooker, Kurt Russell, Vin Diesel, Karen Gillan e Bradley Cooper, con le musiche di Tyler Bates prodotto dalla Marvel Studios e distribuito da Walt Disney Studios Motion Pictures il film è uscito il 25 aprile 2017 in Italia e ha una durata di 137 minuti.

Al ritmo di una nuova, fantastica raccolta di brani musicali (Awesome Mixtape #2), Guardiani della Galassia Vol. 2, racconta le nuove avventure dei Guardiani, stavolta alle prese con il mistero che avvolge le vere origini di Peter Quill. Come il primo film, questo secondo capitolo è ricco di brani la traklist è composta da classici già usati in altri film, come “Mr. Blue Sky” della Electric Light Orchestra, sentita in Se Mi Lasci Ti Cancello, e “Flash Light” dei Parliament, già sincronizzata in The Heat, ma ovviamente in questa pellicola le canzoni prendono tutto un altro significato.

Ironico, immaginifico e, estremamente, permaloso. Questo è Guardiani della Galassia Vol. 2, non è all’altezza del primo film, ma comunque rimane piacevole e divertente. Parte con l’ormai classico style Marvel, quindi coinvolge subito lo spettatore con scene spettacolari, inoltre ci sono forse i miglior titoli iniziali di sempre, con una scena incredibilmente divertente con la mascotte del gruppo il baby Groot che continua un ballo interrotto nel finale del primo film.

I Guardiani sono brutti, sporchi e cattivi… ed è proprio questa la loro forza, combattono per il bene passando per le vie del male, fregandosene delle classiche leggi dei supereroi, loro sanno di esserlo, ma se ne fregano. Il film è un caso tutto fortuito, inizialmente assoldati per proteggere delle batterie di un pianeta, una volta finito il lavoro, rubano le batterie che prima avevano protetto e in quel momento inizierà una serie di eventi che li porterà a vivere un’avventura ai confini del cosmo.

L’argomento base di tutto il film è la famiglia, infatti in questo capitolo, viaggiamo fino ai confini dell’universo per scoprire le origini misteriose di Peter Quill, l’odio tra le due figlie di Thanos Gamora e Nebula e il rapporto affettivo di tutto il gruppo, tante gag – forse troppe, battute chiamate e prevedibili -, tanti scontri e poche scene veramente essenziali. Già, proprio così, non è mai facile ripetersi, ma per fortuna di James Gunn, questo non sarà l’ultimo capitolo, infatti è stato confermato che ci sarà un terzo e ultimo capitolo, anche se lui ancora non si sbilancia: “Stiamo cercando di venirne a capo. Io devo capire cosa voglio fare, più che altro, devo capire cosa voglio fare nei prossimi tre anni della mia vita. Insomma, farò un altro grosso film, saranno i Guardiani o qualcos’altro? Lo capirò nelle prossime due settimane”.

Il film è comunque ricco di potenza, non all’altezza del primo, pieno di effetti speciali e di battute, un classico film da vedere con gli amici prima di una serata all’insegna della musica!

La recensione di ‘Nel caos di stanze stupefacenti’ di Levante


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Cantautorato, Pop 
DATA DI USCITA:
7 Aprile 2017
LABEL: Metatron, Carosello Records
ARTISTA: Levante
TITOLO: Nel Caos di stanze stupefacenti
TRACCE: 12
VOTO:  4/5

Un ritorno inaspettatamente fuori dagli schemi: la giovane cantautrice siciliana sbaraglia senza preavviso la scena mainstream italiana con un album introspettivo e al contempo collettivo. Già dalla copertina, oggetto di discussione quantomai forte nelle ultime settimane, si percepisce un cambio radicale per Levante che abbandona i panni innocenti della ‘giovinezza artistica’ per interfacciarsi con una platea più ampia (anche se con i dovuti rischi di critiche). Ma questa sfrontatezza non è solo visiva, anzi va a coincidere con i gusti del pubblico grazie a suoni tendenti al pop, senza mai slegarsi dall’importanza del testo.

Discorso più che scontato se si fa riferimento all’ausilio di Dario Faini nella composizione, abile a dare quel tocco di classe per amalgare i temi più intimi dell’artista. Ecco così che si parte con il nominale ‘Caos’, una ballad al pianoforte che ci delinea in un breve istante la poetica di questo album, fatto di molteplici temi senza connessioni pressoché logiche. Infatti nei continui sbalzi ritmici, tra canzoni perlopiù lente e altre più veloci, fioccano i rapporti dell’artista con l’amore (‘Io ti maledico’) a metà tra la nostalgia del passato e la speranza per il futuro, la religione (‘Gesù Cristo sono io’) e i social (‘Non me ne frega niente’) . In particolare la dicotomia sentimentale è evidenziata in ‘Sentivo le ali’, un brano quantomai sibillino che mette in mostra sul piano temporale i ragionamenti mentali guardandosi ad uno specchio. Lo stesso che viene richiamato ne ‘Le mie mille me’, viaggio musicale nel labirinto mentale della cantautrice, tra il desiderio di fuga e l’intrappolamento. In particolare quella bramosia di rimanere chiusi in una stanza ‘stupefacente’ nella dimensione amorosa emerge in ‘Di tua bontà’ e  ‘Pezzo di me’, l’unico duetto del disco insieme all’amico Max Gazzè, pronto sicuramente ad entrare nelle nostre radio e ad assumere una valenza routinaria come quella quotidiana enunciata nel pezzo. Scansione in giorni della settimana  che si trasforma in stagioni nel pezzo ‘1996 La stagione del rumore’, dove c’è quella speranza riposta nell’inverno successiva alle distanze intraprese nelle altre tre.

In questo percorso mentale non c’è una traiettoria ben disegnata né un vero e proprio finale, se non fosse stato annunciato dall’artista nella presentazione del disco, che lo ha ancorato ad una fase della sua vita. Quindi è inutile stare a parlare di concept album: questo disco tratteggia la strada per un pop che s’imbeve di temi originali e finalmente raccoglie i meritati frutti.

La recensione de ‘I muri di Berlino’ di Maldestro

imuridiberlino_1425GENERE: Cantautorato
DATA DI USCITA: 24.03.2017
LABEL/ DISTRIBUZIONE: Arealive/ Warner
ARTISTA: Maldestro
TITOLO: I muri di Berlino
TRACCE: 10
VOTO: 4 / 5

A Sanremo Giovani abbiamo avuto un assaggio stilistico con ‘Canzone per Federica’ di ciò che avremmo sentito nelle altre 9 tracce. Perché dietro a quel nome si celava  un’immagine metaforica del famoso muro, trascinata nell’ambito astratto dell’amore e degli altri sentimenti umani. L’utilizzo del plurale ne moltiplica le coordinate spazio-temporali che riescono così a saltellare tra un passato nostalgico e un futuro incerto, ma anche ad essere frammentate in più immagini sotto forma di ricordi.

Non a caso tutto parte con ‘Abbi cura di te’, un brano che entra di soppiatto nelle nostre orecchie con un leggero pianoforte e poi fa del ritmo il punto di riferimento, elencando le bellezze da amare, in un’aura pressoché positiva (‘amore che dai è amore che torna’). Dai consigli, si passa ad un ritmo più retrò in ‘Tutto quello che resta’, il quale sottolinea con l’allusione del tram ad una fine più malinconica, collegabile semanticamente a ‘Prenditi quello che vuoi’, dove però l’autore supplica la donna amata di non ergere questo muro. Come escamotage per resettare il passato, Maldestro attinge ad un dialogo iniziale tra mamma e bambino in ‘Che ora è’, utile per rivisitare la purezza di questo sentimento e ricreare l’incontro fortuito, nelle vesti di uno sconosciuto che chiede l’ora.

Stessa immedesimazione del pargolo utilizzata in ‘Sporco clandestino’, il pezzo più distante dal concept a primo impatto, ma che trasmuta l’amore nei temi più duri dell’immigrazione e della terra che ti costringe a ‘partire con i calci nel sedere per non trovare braccia aperte’. Una critica  aspra rivolta al ‘signor capitano’ ripresa nell’analisi introspettiva di  ‘Io non ne posso più’, dove vengono elencati (in una visione forse gaetaniana di ‘Non te reggae più’)  i problemi con la società attraverso i suoni classici della tromba e della chitarra.

Ma il tema del tempo, vissuto tra la disperazione (‘Tu non passi mai’) e la rassegnazione (‘Arrivederci allora’), si conclude con un frazionamento ‘in un solo minuto’, parte integrante tra parentesi del titolo ‘Lucì’ che gioca con il nome dell’amata e quel primo bagliore sprigionato all’alba, simbolo di un nuovo inizio con i muri necessariamente alle spalle.

Personalmente il disco mi è piaciuto, perché analizza con una qualità visiva notevole e una potenza lessicale moltissimi accadimenti e sentimenti, che si potrebbero vivere anche sulla nostra pelle. Ovviamente il ritmo lento, pronto a far riflettere su ogni singola espressione, non è certamente piacevole per l’ascoltatore medio, ma cela tante sorprese per i cultori della musica d’autore.

LEGION: episodio 01×06 – La recensione

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Premete il tasto “riavvolgi”: si torna al punto di partenza. Tutto è uguale all’inizio della serie, eppure tutto è diverso: al manicomio Clockwork quello che si respira è un clima di serafica tranquillità, che va a cancellare l’inquietudine che permeava questo luogo nella prima puntata. Legion, ancora una volta, si diverte a giocare con lo spettatore: la serie sa benissimo come chi guarda sia a conoscenza della natura illusoria di tutto quello che avviene in questa puntata, e proprio per questo glielo sbatte in faccia come a dire “vediamo quanto resisti”: il tutto non vuole rimanere però una semplice puntata “riempitiva”, ma cerca di approfondire la psicologia di alcuni personaggi secondari, per l’occasione anche loro a ricoprire le vesti arancioni dei pazienti del centro di riabilitazione.

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Su tutti troviamo Ptonomy, fino adesso confinato a personaggio estremamente marginale, ma del quale veniamo a conoscenza di un passato tragico, segnato dalla morte della madre quando lui era solo un bambino e il ricordo della quale continua a tormentarlo.  Melanie, invece, similmente alla psicologia interna della controparte del “mondo reale” è una donna incapace di accettare la scomparsa del marito che si rifugia nell’attesa remota del suo ritorno. Kerry e Cary sono morbosamente attaccati l’uno per l’altra, anche se qui non condividono lo stesso corpo biologico.  Amy, la sorella del protagonista, è una semplice infermiera. David, invece, è l’unico totalmente controcorrente, e sembra perfettamente a suo agio, quasi contento in questa realtà. L’unica a sollevare qualche dubbio sulla veridicità della loro situazione sarà Syd (che non per niente legge “Alice nel Paese delle Meraviglie”): è un piccolo particolare semplice come una porta che scompare e riappare il dettaglio che insinua il dubbio nella mente della ragazza, una cosa tanto piccola da essere sfuggita alla costruzione perfetta del regno di Lenny, che ha tutto (o quasi) sotto il suo controllo e che qui compare con le vesti della psicologa dell’istituto.

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Il ritmo della puntata, come abbiamo detto, è diametralmente opposto ai fuochi d’artificio dello scorso episodio, spezzando la narrazione a metà in attesa dei nuovi, prevedibili stravolgimenti delle ultime due puntate della stagione: ma questa tirata di freno a mano alla serie funziona? Purtroppo, sì e no. Se l’idea di Noah Hawley di dare un attimo di respiro allo spettatore, approfondendo al contempo i personaggi secondari, è apprezzabile, ci pare che sia proprio la grande protagonista della puntata, la Lenny di Aubrey Plaza, a funzionare così così. Se infatti la settimana scorsa avevamo mosso alcune critiche all’interpretazione emotivamente abbastanza piatta di Rachel Keller, qui la critica opposta va invece fatta alla Plaza: capiamo che il personaggio è volutamente esagerato, ma la scelta attoriale e la mimica facciale dell’attrice, specialmente in alcune scene, è veramente troppo sopra le righe. Non commentiamo nemmeno la scena del balletto, che avrebbe dovuto essere straniante e tra il divertito e il sensuale, ma che riesce solamente a dare una sensazione di “sbagliato”, imbarazzante e fuori posto che non siamo davvero riusciti a farci andare via.

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Insomma, puntata di transizione necessaria ma che poteva essere decisamente gestita meglio: rimangono sempre lodevoli la fotografia e la scenografia, qua entrambe molto più pastose e pacate, coerentemente con il tono e il ritmo dell’episodio. Le uniche gioie della puntata la danno le sporadiche apparizioni dell’ipotetico (secondo alcune teorie del web) Shadow King, e di Oliver, vero “deus ex machina” della puntata e forse dell’intera serie.

Legion è una serie che non smette di sperimentare, nemmeno nei suoi episodi di transizione: come tutti i migliori esperimenti, però, a volte funziona e a volte no, ma noi continuiamo ad apprezzare veramente tanto il tentativo di creare un prodotto così diverso e distinto dagli altri. Nella puntata tuttavia non ci è sfuggito un particolare molto interessante: Lenny/Demone dagli Occhi Gialli dice a David di aver conosciuto suo padre, dicendo che “non è così santo come vorrebbe far sembrare”: siamo forse in vista di una possibile rivelazione della presenza del Professor X, Charles Xavier nello show?

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LEGION: episodio 01×05 – La recensione

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Il quinto episodio di Legion sovverte tutte le (poche) certezze che ci erano state date finora, in quello che è, per adesso, l’episodio migliore della stagione.

Troviamo già dall’inizio dell’episodio un David molto diverso rispetto a quello che abbiamo imparato a conoscere: una volta tornato dal viaggio nei meandri della sua mente il ragazzo sembra molto più sicuro di sé, quasi cinico e arrogante. Dietro al suo sguardo sprezzante continuiamo a vedere, però, quel bagliore di follia che se all’inizio poteva nascondersi agli occhi dei suoi compagni d’avventura, adesso si fa troppo presente anche per loro. Quando infatti David decide di andare a salvare la sorella, prigioniera della malvagia Divisione 3, si svela a Melania Bird la verità su cosa si nasconda nella mente del mutante: un parassita, un mostro, un’entità arcaica che divora i ricordi della persona in cui risiede, alterandoli.

Il salvataggio della sorella di David vedrà il corpo del ragazzo quasi “pilotato” dai suoi stessi poteri, trasformando infatti la missione di salvataggio in un vero massacro: tutti quelli che sembravano essere il nemici principali della serie (tranne The Eye) verranno annientati dai poteri di David, polverizzati, letteralmente, con uno schiocco di dita.

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Partiamo dicendo che è necessario elogiare come la narrazione e le scelte visive dell’episodio siano, come abbiamo già detto più volte, veramente originali e inedite (la scena senza audio è straordinaria per come è concepita): unico neo, come già altri hanno fatto notare, è la recitazione di Rachel Keller nei panni di Syd. Per quanto lo straniamento della ragazza alle situazioni sempre più assurde alle quali viene sottoposta sia comprensibile, a parte sgranare gli occhi e rimanere imbambolata, però, per adesso l’attrice non ci sembra riesca ad essere pienamente efficace nel rappresentare la sua determinazione di salvare David, né tantomeno nell’incarnare la situazione di una mutante intrappolata nell’estraniazione obbligata da qualunque tipo di contatto fisico. Che questa scelta recitativa sia voluta o meno  non è dato saperlo, ma in attesa di  vedere lo sviluppo della storia noi restiamo con un grande dubbio.

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D’altra parte invece, siamo contenti di come le fila della narrazione si stiano piano piano, miracolosamente, districando: la storia di Legion di per sé non è particolarmente complicata, ma la messa in scena e la narrazione discontinua avrebbero potuto rendere l’intero sviluppo un grosso fuoco di paglia, rischio che per adesso non sembra correre.

“Il mio nome è Legione, perché noi siamo in molti”, dice il demone nel vangelo di Marco 5, 10-20: non è un caso che sia proprio questo il nome di questa serie. Quanti saranno veramente i “molti” che albergano nella mente di David? Che Syd, Melania Bird e tutti gli altri siano nient’altro che altre personificazioni delle personalità multiple del mutante? In attesa di scoprire quante più cose possibili nei tre episodi che rimangono alla conclusione di questa stagione (Legion è stato rinnovato ufficialmente per una seconda stagione), ci prepariamo a farci esplodere il cervello proprio come nel suggestivo poster della serie.

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