Wonder Woman – La recensione in anteprima (senza spoiler)

Wonder Woman, diretto da Patty Jenkins. Cast: Gal Gadot, Chris Pine, Robin Wright, Connie Nielsen, David Thewlis. Prodotto  e distribuito da Warner Bros. Pictures e DC Entertainment. Uscita nelle sale italiane: 1 Giugno.

coverlg_home

La pellicola dedicata alla Principessa delle Amazzoni è la storia di una bambina incosciente, che diventa dea tra gli uomini.

Portare per la prima volta al cinema Wonder Woman non era un compito facile. Vuoi per il canone inculcato nel grande pubblico dalla celebre serie tv degli anni ’70 con Lynda Carter, vuoi, soprattutto, perché qui stiamo parlando di una vera e propria icona dell’emancipazione femminile e del progressismo: nata nel 1941, lo psicologo William Moulton Marston modellò i tratti da pin-up dell’eroina su una sua assistente con la quale lui e la moglie avevano una relazione aperta. Tanto per dire. In aggiunta poi, per alzare ancora un po’ la pressione, ricordiamo che Wonder Woman arriva dopo le critiche non proprio entusiaste riservate alle prime tre pellicole del DC Extended Universe, affibbiando così alla regista Patty Jenkins, al suo secondo lungometraggio (13 anni dopo Monster), la responsabilità di sfornare una pellicola che potesse finalmente soddisfare appassionati, critica e pubblico.

warner-bros-comic-con-movie-panel-will-include-wonder-woman-suicide-squad-and-more-social

Ecco, aiutata da un’ambientazione storica ben distante dal macrocosmo DC, il primo pregio di Wonder Woman è quello di non guardare al passato ma voler sin da subito ribadire la scelta di intraprendere una direzione abbastanza diversa, abbandonando i toni eccessivamente seriosi di Batman v Superman in favore di un intrattenimento più puro e, forse, più onesto. Non mancano, infatti, le gag e le battute (e c’è da dire che queste fanno sorridere per davvero), che giocano soprattutto su una doppia condizione di straniamento che si ritrova prima nel pilota Steve Trevor (interpretato da Chris Pine), catapultato nella mistica isola di Themyscira, e poi nella stessa Diana Prince (Gal Gadot), che deve fare i conti con il “mondo esterno” dopo essere cresciuta nascosta e distante da esso.

Essendo questo Wonder Woman prima di tutto una storia d’origini, l’impostazione è quella abbastanza classica della struttura in tre atti: conosciamo prima la luminosa isola delle amazzoni di Themyscira, dove scopriamo con alcuni espedienti la storia e il contesto nel quale siamo immersi, ma tutto cambia quando un pilota britannico precipita dal cielo proprio nelle acque della paradisiaca isola (l’utilità dello scudo protettivo magico è un dubbio che ci pervade), facendo conoscere poi a tutte le Amazzoni l’esistenza di una guerra che sta devastando il mondo. Sarà proprio questa rivelazione a far compiere a Diana la decisione di abbandonare il luogo di nascita per dirigersi verso il mondo esterno, credendo di poter porre fine alle ostilità.

Vamers-FYI-Movies-Wonder-Woman-2017-Official-Comic-Con-Trailer-Themyscira

È proprio la dualità tra i personaggi di Gal Gadot e Chris Pine ad essere il perno attorno al quale ruota tutta la pellicola: si gioca su due mondi diversi che si toccano, contrapponendo la luminosa realtà dell’isola mistica delle Amazzoni ai colori desaturati del fronte di Guerra. Interessante l’interpretazione del concetto della guerra vera e propria per le due parti: vista come un nemico da abbattere per l’eroina, quanto invece come un’entità con la quale si deve convivere per gli uomini, dalla quale essi sono attratti ma che allo stesso tempo vorrebbero ripudiare. Complice dell’efficacia di questo sottotesto sia l’alchimia dei due attori, che funziona molto bene nonostante il risvolto romantico sia di una banalità sconcertante, quanto soprattutto la scelta dello script di voler evitare un femminismo eccessivo (come era successo ad esempio nel recente remake dei Ghostbusters), rendendo il film estremamente femminile senza tuttavia ridicolizzare le figure maschili.

151556358-a169473f-5eab-495f-bdd1-229baf8c0849

Fila tutto liscio, quindi? Non proprio: se il primo e il secondo atto del film funzionano abbastanza bene, tutta la parte finale della pellicola ripiomba nella dimostrazione di come ancora una volta sia considerato impossibile sfuggire al cosiddetto canovaccio supereroistico della “boss fight” con il cattivone di turno. Lo scontro finale, oltre a ricordare veramente tanto quello che abbiamo visto, ahimè, in Batman v Superman, arriva veramente a casaccio e in alcuni punti rasenta il ridicolo, complici una CGI videogiocosa, una scelta di casting incomprensibile e alcune frasi dette qua e là nel corso della lotta decisamente risparmiabili.

maxresdefault

I difetti di Wonder Woman ci sono quindi, e non sono pochi, ma c’è da dire che per tutta una serie di fattori e per la struttura generale risulta forse più facile perdonarli qui che in altre occasioni, tanto da poter essere considerato sicuramente il film nel complesso più riuscito tra i quattro sfornati dalla DC fino ad ora. Il più grande merito è sicuramente quello di reggersi su un’interprete incredibile, attorno alla quale la pellicola è interamente modellata, dotata di una bellezza e di una grazia straordinarie. Onnipresente in ogni scena, la modella israeliana Gal Gadot riesce ad essere tanto efficace nelle  sequenze di combattimento quanto magnetica in quelle dove veste i panni civili: spazzati via tutti i dubbi che ancora potevano rimanere sulla sua scelta di casting, per noi adesso lei è diventata veramente l’unica Principessa delle Amazzoni, e forse uno dei principali fattori che ci spinge ad avere ancora fiducia nel prossimo film sulla Justice League.

 

Piccoli Fastidi Quotidiani: il nuovo divertente disco dei Controsenso Acoustic Duo

Band LR

 

E’ mattina e sto tocciando il primo Pan di stelle nel mio zuppone di caffèlatte. Ovviamente la sonnolenza è tale che il biscotto va in immersione subaquea in due secondi. Cerco un po’ di sound per iniziare la giornata e scelgo “Piccoli Fastidi Quotidiani”, titolo che mi sembra idoneo per coronare tale tragedia mattutina.

Inizialmente, ascoltando l’apertura dell’album penso subito a Marco dei Cesaroni e a Ed Sheeran. Ammazza ha del sound questa roba! Subito mi metto a saltellare e penso soltanto “questi Controsenso Acoustic Duo mi capiscono proprio”! Tra lamentarsi degli esami, delle ascelle maleodoranti sugli autobus e delle dubitabili doti canore degli artisti che passano per radio costantemente, rappresentano proprio un manifesto di protesta alle mie mattinate tipiche! Mi innamoro di loro quando però descrivono la scena epica di un sorpasso a destra da parte di un vecchietto con improbabili capacità di guida e quando esordiscono con un “sono già le 7.30 e già non vi reggo più!”

I Controsenso Acoustic Duo sono partiti facendo cover di canzoni metal, rock, pop e rivedendole in chiave acustica e hanno esordito a febbraio con il loro primo album “Piccoli Fastidi Quotidiani”.

I contenuti sono alquanto ironici ma davvero poetici e sentiti, anche se dedicati ad un noioso “Correttore Corruttore” che devasta umore e amori.

Il loro sound rende la narrazione molto leggera e divertente grazie  a una chitarra acustica molto ben strimpellata e da due belle voci come quelle di Davide Cotena e Chiara Consolini. A dirla tutta, come raccontano loro stessi nel Manifesto, la loro musica è creata anche suoni prodotti da cimbalino, loopstation, stompbox, cimbali a piede e tanto altro (ma tutto suonato dal solo Davide)!

Vi lasciamo con il loro divertente video di The Odorante!

Prossime Date dei concerti dei Controsenso Acoustic Duo:

  • 6 maggio (Sorbakko, RN)
  • 12 maggio (Quingentole, MI)
  • 20 maggio (Scandiano, RE)

Artwork.png

LEGION: episodio 01×06 – La recensione

ch-106-1795-1489512682428_1280w

Premete il tasto “riavvolgi”: si torna al punto di partenza. Tutto è uguale all’inizio della serie, eppure tutto è diverso: al manicomio Clockwork quello che si respira è un clima di serafica tranquillità, che va a cancellare l’inquietudine che permeava questo luogo nella prima puntata. Legion, ancora una volta, si diverte a giocare con lo spettatore: la serie sa benissimo come chi guarda sia a conoscenza della natura illusoria di tutto quello che avviene in questa puntata, e proprio per questo glielo sbatte in faccia come a dire “vediamo quanto resisti”: il tutto non vuole rimanere però una semplice puntata “riempitiva”, ma cerca di approfondire la psicologia di alcuni personaggi secondari, per l’occasione anche loro a ricoprire le vesti arancioni dei pazienti del centro di riabilitazione.

ch-106-1476-1489512682426_1280w

Su tutti troviamo Ptonomy, fino adesso confinato a personaggio estremamente marginale, ma del quale veniamo a conoscenza di un passato tragico, segnato dalla morte della madre quando lui era solo un bambino e il ricordo della quale continua a tormentarlo.  Melanie, invece, similmente alla psicologia interna della controparte del “mondo reale” è una donna incapace di accettare la scomparsa del marito che si rifugia nell’attesa remota del suo ritorno. Kerry e Cary sono morbosamente attaccati l’uno per l’altra, anche se qui non condividono lo stesso corpo biologico.  Amy, la sorella del protagonista, è una semplice infermiera. David, invece, è l’unico totalmente controcorrente, e sembra perfettamente a suo agio, quasi contento in questa realtà. L’unica a sollevare qualche dubbio sulla veridicità della loro situazione sarà Syd (che non per niente legge “Alice nel Paese delle Meraviglie”): è un piccolo particolare semplice come una porta che scompare e riappare il dettaglio che insinua il dubbio nella mente della ragazza, una cosa tanto piccola da essere sfuggita alla costruzione perfetta del regno di Lenny, che ha tutto (o quasi) sotto il suo controllo e che qui compare con le vesti della psicologa dell’istituto.

legion-chapter6-237721-640x320

Il ritmo della puntata, come abbiamo detto, è diametralmente opposto ai fuochi d’artificio dello scorso episodio, spezzando la narrazione a metà in attesa dei nuovi, prevedibili stravolgimenti delle ultime due puntate della stagione: ma questa tirata di freno a mano alla serie funziona? Purtroppo, sì e no. Se l’idea di Noah Hawley di dare un attimo di respiro allo spettatore, approfondendo al contempo i personaggi secondari, è apprezzabile, ci pare che sia proprio la grande protagonista della puntata, la Lenny di Aubrey Plaza, a funzionare così così. Se infatti la settimana scorsa avevamo mosso alcune critiche all’interpretazione emotivamente abbastanza piatta di Rachel Keller, qui la critica opposta va invece fatta alla Plaza: capiamo che il personaggio è volutamente esagerato, ma la scelta attoriale e la mimica facciale dell’attrice, specialmente in alcune scene, è veramente troppo sopra le righe. Non commentiamo nemmeno la scena del balletto, che avrebbe dovuto essere straniante e tra il divertito e il sensuale, ma che riesce solamente a dare una sensazione di “sbagliato”, imbarazzante e fuori posto che non siamo davvero riusciti a farci andare via.

vlcsnap-2017-03-19-23h14m24s795 (2)

Insomma, puntata di transizione necessaria ma che poteva essere decisamente gestita meglio: rimangono sempre lodevoli la fotografia e la scenografia, qua entrambe molto più pastose e pacate, coerentemente con il tono e il ritmo dell’episodio. Le uniche gioie della puntata la danno le sporadiche apparizioni dell’ipotetico (secondo alcune teorie del web) Shadow King, e di Oliver, vero “deus ex machina” della puntata e forse dell’intera serie.

Legion è una serie che non smette di sperimentare, nemmeno nei suoi episodi di transizione: come tutti i migliori esperimenti, però, a volte funziona e a volte no, ma noi continuiamo ad apprezzare veramente tanto il tentativo di creare un prodotto così diverso e distinto dagli altri. Nella puntata tuttavia non ci è sfuggito un particolare molto interessante: Lenny/Demone dagli Occhi Gialli dice a David di aver conosciuto suo padre, dicendo che “non è così santo come vorrebbe far sembrare”: siamo forse in vista di una possibile rivelazione della presenza del Professor X, Charles Xavier nello show?

Legion-Chapter-6-The-wall

LEGION: episodio 01×05 – La recensione

legion-chapter-5-review

Il quinto episodio di Legion sovverte tutte le (poche) certezze che ci erano state date finora, in quello che è, per adesso, l’episodio migliore della stagione.

Troviamo già dall’inizio dell’episodio un David molto diverso rispetto a quello che abbiamo imparato a conoscere: una volta tornato dal viaggio nei meandri della sua mente il ragazzo sembra molto più sicuro di sé, quasi cinico e arrogante. Dietro al suo sguardo sprezzante continuiamo a vedere, però, quel bagliore di follia che se all’inizio poteva nascondersi agli occhi dei suoi compagni d’avventura, adesso si fa troppo presente anche per loro. Quando infatti David decide di andare a salvare la sorella, prigioniera della malvagia Divisione 3, si svela a Melania Bird la verità su cosa si nasconda nella mente del mutante: un parassita, un mostro, un’entità arcaica che divora i ricordi della persona in cui risiede, alterandoli.

Il salvataggio della sorella di David vedrà il corpo del ragazzo quasi “pilotato” dai suoi stessi poteri, trasformando infatti la missione di salvataggio in un vero massacro: tutti quelli che sembravano essere il nemici principali della serie (tranne The Eye) verranno annientati dai poteri di David, polverizzati, letteralmente, con uno schiocco di dita.

ch-105-0433-1488910323171_1280w

Partiamo dicendo che è necessario elogiare come la narrazione e le scelte visive dell’episodio siano, come abbiamo già detto più volte, veramente originali e inedite (la scena senza audio è straordinaria per come è concepita): unico neo, come già altri hanno fatto notare, è la recitazione di Rachel Keller nei panni di Syd. Per quanto lo straniamento della ragazza alle situazioni sempre più assurde alle quali viene sottoposta sia comprensibile, a parte sgranare gli occhi e rimanere imbambolata, però, per adesso l’attrice non ci sembra riesca ad essere pienamente efficace nel rappresentare la sua determinazione di salvare David, né tantomeno nell’incarnare la situazione di una mutante intrappolata nell’estraniazione obbligata da qualunque tipo di contatto fisico. Che questa scelta recitativa sia voluta o meno  non è dato saperlo, ma in attesa di  vedere lo sviluppo della storia noi restiamo con un grande dubbio.

Legion-1.05-Chapter-5-the-white-room

D’altra parte invece, siamo contenti di come le fila della narrazione si stiano piano piano, miracolosamente, districando: la storia di Legion di per sé non è particolarmente complicata, ma la messa in scena e la narrazione discontinua avrebbero potuto rendere l’intero sviluppo un grosso fuoco di paglia, rischio che per adesso non sembra correre.

“Il mio nome è Legione, perché noi siamo in molti”, dice il demone nel vangelo di Marco 5, 10-20: non è un caso che sia proprio questo il nome di questa serie. Quanti saranno veramente i “molti” che albergano nella mente di David? Che Syd, Melania Bird e tutti gli altri siano nient’altro che altre personificazioni delle personalità multiple del mutante? In attesa di scoprire quante più cose possibili nei tre episodi che rimangono alla conclusione di questa stagione (Legion è stato rinnovato ufficialmente per una seconda stagione), ci prepariamo a farci esplodere il cervello proprio come nel suggestivo poster della serie.

IMG_1377

LEGION: episodio 01×04 – La recensione

Legion-Chapter-4-2

Il tratto distintivo della serie televisiva ideata da Noah Hawley è principalmente uno: se ne frega. Se ne frega di spiegare allo spettatore qualsiasi cosa, lasciandolo a ricomporre i pezzi che gli sono stati dati. Se ne frega della storia, preferendo mantenere una narrazione sconnessa ed esteticamente unica. Se ne frega dei collegamenti con il materiale originale, intraprendendo una visione slegata dall’universo cinematografico degli X-Men. Se ne frega persino di ribadire tramite una sigla iniziale la propria identità, tanto che in questa quarta puntata il logo “Legion” dura meno di un secondo. Tuttavia, Legion può permettersi tutto questo senza stonare, perché la sua estetica continua ad essere così immediatamente riconoscibile e originale da rendere questa serie diversa da qualsiasi altra che abbiate mai avuto modo di vedere.

oliver-bird-maxw-654

La quarta puntata si apre con un uomo vestito di bianco che parla direttamente alla telecamera: scopriremo più avanti che si tratta del marito di Melanie Bird, Oliver, intrappolato in un piano astrale e che qui ci introduce all’episodio con un monologo che parla della dualità della natura umana, tra empatia e paura.

La dualità è anche il tema di fondo di tutto questo episodio, come anche forse dell’intera serie: è presente nei personaggi di Cary/Kerry, che condividono lo stesso corpo e che provano allo stesso tempo le stesse sensazioni; è presente nella psiche frammentata di David, che confonde realtà e allucinazione;  emerge infine più che mai, soprattutto, nella narrazione di questo episodio, in cui è evidente il contrasto tra quello che avviene nel mondo reale e quello che invece è solo una proiezione illusoria. Per buona parte della puntata, infatti, siamo nel mondo reale, dove seguiamo Syd, Ptonomy e Kerry indagare su cosa sia successo realmente a David prima del suo arrivo al Clockworks, in una ricerca che li condurrà fino al dr.Poole, psichiatra che aveva in cura il ragazzo: David, nel frattempo, si ritrova ancora addormentato dopo gli eventi dello scorso episodio, immerso nel tentativo di scappare dal labirinto autoimposto dalla sua stessa mente e dalle visioni che lo perseguitano.

legion-670x376

Dopo alcune puntate dove le location erano restate abbastanza statiche, concentrandosi sulla mente del giovane mutante, la narrazione di questo “Chapter 4” si fa infatti molto più dinamica e corale, con alcune sequenze di azione decisamente inaspettate. In aggiunta, arrivano anche i primi chiarimenti: scopriremo nel corso dell’episodio che il cane che compare nei ricordi di David in realtà non è mai esistito, così come che Lenny (l’amica di droghe di David) in realtà era un uomo grassoccio, Benny. Sono allora proprio queste le cose che fanno arrivare la conferma di quello che gli spettatori più attenti avevano già subodorato: quasi tutto quello che abbiamo avuto modo di vedere nei ricordi del ragazzo è finto, o perlomeno totalmente distorto.

Ma allora quanto di quello che abbiamo visto è vero, e quanto è invece una proiezione mentale o una modificazione operata dalla mente di David? Ancora non lo sappiamo, e nemmeno è detto che ci verrà data una risposta. Legion se ne frega anche di darne una e tutto quello che abbiamo, invece, sono delle idee e delle immagini da incastrare tra piani astrali, temporali, mentali diversi. Per adesso però è tutto talmente divertente che c’è da dire che alla fine, delle risposte, ce ne freghiamo un po’ anche noi.

legion

La luce sugli oceani – La recensione in anteprima (senza spoiler)

La luce sugli oceani (The light between the oceans) di Derek Cianfrance. Con Michael Fassbender, Alicia Vikander, Rachel Weisz. Prodotto da Heyday Films, Reliance Entertainment, DreamWorks SKG, Participant Media. Distribuito da Eagle Pictures. Uscita in Italia: 8 Marzo

la-luce-sugli-oceani-michael-fassbender-alicia-vikander-trailer-italiano-ufficiale-2-hd-1200x630

Il melodramma è un territorio estremamente rischioso, ma ciò poco importa a Derek Cianfrance, 41enne regista americano, che torna a raccontare per la terza volta una storia di una coppia posta di fronte a duri eventi da superare: dopo l’apprezzato Blue Valentine (2010) e The place beyond the pines, in Italia Come un tuono (2012), La luce sugli oceani è invece un dramma storico di cui già le premesse non sono estremamente incoraggianti.

Tratto dal romanzo di M.L. Stedman, “The light between the oceans” è una storia strappalacrime che si ambienta dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, su un’isola australiana apparentemente dimenticata da Dio e dagli uomini. Qui Tom (Michael Fassbender), eroe di guerra, sarà il nuovo custode del faro e, nonostante abbia deciso di vivere questa vita di isolamento forzato per sfuggire dal doloroso ricordo della guerra, troverà inaspettatamente anche l’amore negli occhi della dolce Alicia Vikander.

La-Luce-sugli-oceani

Accolto abbastanza freddamente dopo la presentazione allo scorso Festival di Venezia, se questa storia dovrebbe cercare nell’alchimia e nell’empatia per i due protagonisti il suo punto di forza si trova invece proprio qui il primo problema: da una parte il camaleontico Fassbender è in evidente disagio per tutta la pellicola, e dall’altra anche il personaggio interpretato dalla Vikander risulta più antipatico che altro, schermando qualsiasi possibilità di commiserazione da parte dello spettatore per il dolore della donna.

Il problema più grande della pellicola si trova però soprattutto nella generale messa in scena: le onde del mare, i primi piani sui protagonisti addolorati e sui loro pensosi e languidi sguardi, la colonna sonora da drammone composta da un poco ispirato Alexander Desplat, sono tutti fattori che creano un prodotto così classico e prevedibile da risultare anacronistico sia nella storia che nello stile. In aggiunta anche la durata della pellicola non aiuta, dando la sensazione di trascinarsi stancamente per tutta la sua parte centrale, per poi avere una soluzione finale inspiegabilmente frettolosa.

La-luce-sugli-oceani-3-650x300

Forse l’unica cosa che si salva sono le location, già di per sé incredibili ma dietro le quali il regista si scherma un po’: le condizioni atmosferiche tempestose rispecchiano abbastanza bene il tormento emotivo dei protagonisti, ma finiscono per essere più efficaci delle interpretazioni stesse.

Insomma, viene proprio da chiedersi come sia possibile che si sia sentita l’impellente necessità di adattare su schermo una storia così classica, in una maniera altrettanto canonica: le melassose pose da quadro vittoriano e gli insistenti tramonti sembrano provenire direttamente da un cinema antico, di cui sinceramente non se ne sente più il bisogno. Il risultato finale è quindi una pellicola vecchia come il target a cui si rivolge, composto principalmente da appassionate lettrici di romanzi rosa dal fazzoletto facile.

Kong: Skull Island – La Recensione in anteprima (senza spoiler)

Kong: Skull Island, diretto da Jordan Vogt-Roberts. Cast: Tom Hiddleston, Samuel L. Jackson, Brie Larson, John Goodman, John C. Reilly, Toby Kebbell. Prodotto da Legendary Pictures e distribuito da Warner Bros. Pictures. Uscita nelle sale italiane: 9 Marzo

coverlg_home

È in uscita nelle sale italiane il 9 Marzo il secondo film appartenente all’ormai dichiarato universo condiviso dei mostri giganti, il MonsterVerse, che segue il Godzilla del 2014 diretto da Gareth Edwards.

Come il film del lucertolone, anche questo Kong: Skull Island è stato diretto da un regista semisconosciuto, Jordan Vogt-Roberts, a cui (nonostante avesse alle spalle solo una piccola pellicola indie) è stato affidato il budget stellare di questo reboot: quello a cui tiene Roberts è però mettere subito in chiaro, sin dall’inizio del film, la volontà di intraprendere una strada totalmente diversa rispetto alle varie versioni di King Kong che abbiamo in passato visto su schermo.

Questa grossa differenza si vede già a partire dal setting: dopo un’efficace sequenza di apertura ambientata durante la fine della Seconda Guerra Mondiale, che fa un po’ da prologo al film, veniamo catapultati nell’epoca in cui il resto della pellicola sarà ambientata, gli anni ’70. In questo salto cronologico l’associazione governativa M.O.N.A.R.C.H. (già vista proprio in Godzilla), guidata da John Goodman, decide di andare ad esplorare un’isola incontaminata a sud del Pacifico, l’Isola dei Teschi, da sempre rimasta fuori dalle mappe e ora finalmente trovata grazie a nuove foto satellitari. Gli scienziati saranno accompagnati da un gruppo di soldati guidati da Samuel L. Jackson, un comandante dei marines desideroso di rivincita dopo aver abbandonato la guerra contro i “Charlie”, dal cacciatore britannico Tom Hiddleston (vestito come Nathan Drake di Uncharted) e  da Brie Larson, una fotografa in cerca di nove avventure.

coverlg_home-1

A sostituire la classica ambientazione degli anni ’30, quindi, è proprio la gustosa estetica dei Seventy’s a farla da padrone: oltre ai numerosi rimandi alla guerra del Vietnam e ai suoi soldati in perenne ricerca di un’altra battaglia da combattere (alcune scene sono un chiaro omaggio ad Apocalypse Now), anche la colonna sonora pompa canzoni rock di quell’era, da Down on the Streets dei The Stooges fino a Run Through the Jungle di John Fogerty,  in una maniera che per fortuna ricorda più i Guardiani della Galassia che Suicide Squad (nel quale le canzoni sembravano inserite un po’ forzatamente).

Il tono del film è molto diverso anche dalla pellicola con la quale Kong: Skull Island condivide lo stesso universo: se Godzilla era abbastanza serioso e la sua estetica puntava a toni cupi e a colori tendenti al grigio e al bluastro, qui invece ci troviamo davanti ad un tripudio di rossi, arancioni e colori saturissimi che ricordano molto Mad Max Fury Road, così come non mancano parecchie battute e dialoghi divertenti. In aggiunta, se in Godzilla gli uomini erano protagonisti tanto quanto il lucertolone (comunque al centro di alcune sequenze di distruzione mozzafiato), qui il protagonista indiscusso è Kong, unico vero personaggio della pellicola a cui è riservato anche un po’ di background. I personaggi di cui abbiamo parlato, infatti, rimangono piatti quanto una sottiletta per tutta la durata della pellicola: non verremo a conoscenza di alcun retroscena né vera motivazione di alcuno di loro, nessuno avrà un’evoluzione, non ci interesserà della morte di nessuno, in una vuotezza così marcata che persino il tentativo dell’avventuriero interpretato da Tom Hiddleston di dire qualcosa sul suo passato, a un certo punto del film, ci sembrerà quasi fuori luogo.

kong-skull-island

Ma tutto ciò è necessariamente un difetto? Dipende sicuramente con quale predisposizione e aspettativa state andando a vedere il film: se pensate di trovare approfondimento psicologico e sentimento, se volete commuovervi e meditare sulla differenza tra l’uomo e l’animale come nella versione di King Kong di Peter Jackson, allora state pure a casa. Se volete spegnere il cervello per due ore e lasciarvi trasportare dal divertimento eccessivo più assoluto, invece, siete nel posto giusto. Sì, perché Kong: Skull Island funziona così bene proprio perché non ha paura di dichiararsi apertamente tamarro e sopra le righe in tutto. L’approfondimento è accantonato in favore dell’estetica più assoluta: le location sono meravigliose, il design delle creature fa gioire chiunque da bambino abbia passato pomeriggi a disegnare mostri di ogni genere, lo scimmione e le sue scazzottate lasciano con gli occhi sbarrati dallo stupore. Sorprende soprattutto, infatti, come questo regista sconosciuto sia riuscito a mettere in scena queste sequenze di combattimento dove l’azione è fluida e mai caotica, con la telecamera che segue i bestioni che si cartellano di mazzate dando una chiara idea della loro mastodontica scala.

isurpez

Chiaramente non mancano degli eccessi, e questa grafica fumettosa a tratti richiama troppo un videogioco (per chi ha già visto il film: maschera antigas + katana), così come anche il montaggio frenetico e aggressivo funziona alla grande nelle sequenze d’azione ma forse dà leggermente fastidio in quelle che dovrebbero lasciare un po’ più di respiro allo spettatore. Tuttavia questo non voler essere autori a tutti i costi, questo divertirsi e voler divertire (e fare anche un po’ gli scemi) ci piace da morire, e crea un nuovo canovaccio-tipo da filmone di serie-B tutto made in Hollywood.

Si abbandona la civiltà per buttarsi a capofitto in una natura sconosciuta, in cui tutto è grande e ignoto:  lo scimmione sorge maestoso davanti al sole e gli elicotteri di lamiera, che poco prima hanno superato una tempesta di fulmini, cadono come mosche sotto la collera del mostro. Una delle icone cinematografiche più antiche di sempre è tornata, e stavolta Kong è veramente il Re indiscusso.

P.S.: Restate fino alla fine dei titoli di coda… Ne vale davvero la pena.