#TimeOfRock – The Roots Of The Rolling Stones

Come ogni settimana torna #TimeOfRock, la rubrica di musica che prova a portare l’immaginazione indietro nel tempo, parlando del Rock,  il Rock, quello con la R maiuscola, quello degli anni ’60 e ’70 quello che nasce da Elvis, Beatles e Rolling Stones e continua con Led Zeppelin, Deep Purple, Bob Dylan e molti altri …

Rolling-Stones

“The world’s greatest rock ‘n’ roll band”. Forse, per una volta, la (auto)definizione più abusata è anche quella giusta. I Rolling Stones non sono soltanto un miracolo di longevità: sono la quintessenza di un intero genere – il rock – che hanno contribuito a forgiare e rendere immortale, ripartendo proprio dalle sue radici – i ritmi tribali, il blues, il jazz – e coniando un sound potente e decisivo per le generazioni successive. Una simbiosi completa, che non si limita all’aspetto musicale. Nessuno meglio di loro, infatti, ha incarnato il modus vivendi, la frenesia e gli eccessi del rock. Una fiamma che continua a riaccendersi puntualmente a ogni nuova tournée, rinnovando un incantesimo che troppi dischi mediocri degli ultimi anni rischiavano di spezzare.

Brutti, sporchi e cattivi

I Rolling Stones esordirono nell’arena del rock in piena era beat, come l’alternativa “brutta sporca e cattiva” ai Beatles. Ne nacque subito la più scontata delle contrapposizioni: i garbati e simpatici sudditi di “Sua Maestà” contro i teppisti insolenti della suburbia londinese; i baronetti del conformismo pop contro le anime dannate del rock. Un contrasto tanto artefatto (per la fortuna dei discografici) quanto mendace, se si pensa ad esempio che i Beatles erano i veri figli della working class, mentre gli Stones scaturivano dalle velleità artistiche dei rampolli irrequieti della borghesia londinese. Entrambi, poi, condividevano ambienti e gusti musicali: fu Harrison a contattare la Decca per il primo provino degli Stones, mentre i Beatles regalarono ai futuri rivali il primo singolo; entrambi scivolarono negli eccessi e nelle droghe, inseguirono le sorgenti della musica americana, la psichedelia e l’utopia hippie, la contestazione e la stardom. Eppure, quello tra il quartetto di Liverpool e il quintetto di Londra resterà per sempre il più celebre dualismo della storia del rock.

La musica dei Rolling Stones affondava le radici nel blues inquieto di Robert Johnson, John Lee Hooker, Bo Diddley, e in un sano “rollare” di marca Presley & Holly; ma fu il modo in cui si avvicinarono a questo tipo di musicalità a provocare l’iniziale sdegno dei perbenisti. Rock “stradaiolo”, in tutto e per tutto: nella melodia, nel look, e nel loro stesso stile di vita. Uno stile sublimato dalla stessa figura del frontman, Mick Jagger, satiro sguaiato e lascivo, capace di esprimere tutte le nevrosi e le lusinghe del rocker, in una rivisitazione animalesca della figura del crooner soul.

Provocatori per natura e per divertimento, i Rolling Stones esaltarono il loro spirito basilare fino a farlo divenire un autentico fatto di costume, ribellandosi agli stilemi imperanti, impomatati di tradizionalismo e bigottismo. Infarcivano i loro testi di un depravato senso di giovanilismo, riuscendo a essere perfettamente credibili in quelle storie ribollenti di eccessi, perché molte volte i personaggi principali di quelle storie erano loro stessi. Il loro era un linguaggio diretto, senza molti abbellimenti stilistici, ma in quelle parole si riconoscevano tutti quei giovani che si sentivano imprigionati nell’asfittica società dell’epoca. Il parlare di esperienze sessuali ai limiti (e al di là) della pornografia, il teppismo urbano, i lucidi e drammatici racconti di vita avvelenata in squallide camere ospedaliere, o ancora, e più semplicemente, il raccontarsi all’insegna del divertimento, con la sfrenata bramosia di farlo ora, adesso e subito, non erano altro che l’invocazione di chi voleva evadere dal grigiore quotidiano.

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La musica stoned non è mai stata particolarmente elegante dal punto tecnico, era una costruzione sonora poggiante su riff ripetuti all’infinito: pochi accordi e scarsa attenzione verso certe spettacolarità tecnico/strumentali. Eppure ogni strumento era un piccolo show: la batteria marziale e slanciata di Watts, la chitarra ruggente e sinuosa di Richards, il cantato black lussurioso di Jagger, il basso cavernoso di Wyman; in più, nella prima fase, il genio eclettico di Jones, capace di esplorare i suoni dell’organo, del dulcimer, del sitar e dei flauti dolci.

Heart of Stones

Il primo nucleo della band si costituì a Londra agli inizi degli anni ’60, quando il cantante Michael Phillip “Mick” Jagger e il chitarrista Keith Richards, compagni di scuola fin dalle elementari e già insieme sotto lo pseudonimo di Nanker & Phelge, formano con Dick Taylor, Bob Beckwith e Allen Etherington i Little Boy Blue And The Blue Boys, uno dei tanti gruppi ispirati al blues di Chicago. All’organico si aggiunge subito il polistrumentista Brian Jones. Jagger e Richards sostituiscono gli altri tre con il chitarrista Geoff Bradford, il pianista Ian Stewart e i batteristi Tony Chapman e Mick Avory.

Nella prima fase della storia, l’anima degli Stones è Brian Jones. Dotato di un prodigioso talento per la musica (fin da ragazzino sapeva già suonare di tutto, dall’organo al sassofono, e coltivava una passione sfrenata per gli spartiti jazz di Charlie Parker), Jones vantava anche il curioso primato di aver concepito ben sei figli da altrettante ragazze nell’arco di un decennio (il primo a quindici anni). Inguaribile provocatore e anticonformista, capelli lunghi e sguardo impertinente, incarnava in tutto e per tutto la figura del rocker dannato, cresciuto “on the road”.

Il debutto della band avvenne il 12 luglio 1962 in uno dei templi del rock: il Marquee di Londra. Nel frattempo, si uniscono al nucleo originario Bill Wyman, ex-bassista dei Cliftons e Charlie Watts, batterista della Blues Incorporated di Alexis Korner. Ribattezzatisi The Rolling Stones (da una celebre canzone di Muddy Waters), attirarono l’attenzione del manager Andrew Loog Oldham, che procurò loro un contratto con la Decca ed estromise dalla formazione Stewart, che diventerà road manager del gruppo e membro aggiunto. Sarà proprio Oldham a coniare il celebre slogan:

“Lascereste che vostra figlia uscisse con uno degli Stones?”

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La musica dei Rolling Stones è impudente e selvaggia come la loro immagine. E attinge alle sorgenti blues del rock’n’roll. Il primo singolo, “Come On” (1963), è la cover di un brano di Chuck Berry, il secondo 45 giri è un gentile omaggio dei “rivali” Lennon e McCartney (“I Wanna Be Your Man”), ma è “Not Fade Away” (di Buddy Holly) che, nel giugno 1964, ottiene i primi positivi riscontri di vendite.
I cinque successivi singoli (tra cui “Little Red Rooster”, “The Last Time” e “Get Off My Cloud”) contendono la vetta delle classifiche agli hit dei Beatles.

Nella luccicante Swingin’ London degli anni 60, i Rolling Stones rappresentavano l’anima nera e sotterranea della città. Quella che si nutriva di baccanali assordanti nei club underground. Quella che vibrava della rabbia dei bassifondi, dei sobborghi più violenti e degradati. La loro musica, tuttavia, riuscì a far breccia su un pubblico molto più ampio, grazie alla straordinaria abilità tecnica di un ensemble che non si regge solo sul genio di Jones, ma anche sul chitarrismo selvaggio di Keith Richards, mentre Jagger, con il suo crooning satanasso, si imporrà come uno dei più grandi cantanti, frontman e performer di tutti i tempi. Quindi, sì erano brutti, sporchi e cattivi. Non saprei dirvi se sono la band più grande della storia del Rock, ma più semplicemente loro sono il Rock.

#TimeOfRock – Sweet Home Alabama

Come ogni settimana torna #TimeOfRock, la rubrica di musica che prova a portare l’immaginazione indietro nel tempo, parlando del Rock,  il Rock, quello con la R maiuscola, quello degli anni ’60 e ’70 quello che nasce da Elvis, Beatles e Rolling Stones e continua con Led Zeppelin, Deep Purple, Bob Dylan e molti altri.

Il 1974 è stato l’anno delle dimissioni del presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, in seguito allo scandalo Watergate, ma è stato anche l’anno della nascita della cultura hip hop a New York, grazie alle comunità afroamericane e latinoamericane che vivevano nel Bronx. Mentre la ABC mandava in onda per la prima volta la fortunata serie televisiva, “Happy Days” e a Jacksonville, in Florida, i Lynyrd Skynyrd pubblicavano “Sweet Home Alabama”, primo singolo estratto dal loro secondo album, “Second Helping”, LP che ottenne 2 dischi di platino. Sweet Home Alabama, probabilmente la più celebre canzone del gruppo Lynyrd  Skynyrd, non ha mai finito di suscitare discussioni riguardo al suo significato, che potrebbe sembrare molto chiaro, ma forse, a guardar bene, così chiaro non è.

La canzone festeggerà 46 anni: la registrazione del brano, infatti, risale al giugno del 1973, però la pubblicazione avvenne com già detto 1974, all’interno del secondo album dei Lynyrd Skynyrd, Second Helping. L’altro giorno mentre pensavo a cosa raccontarvi, mi è venuta in mente casa mia, quel paesino sperduto nella costa toscana, con molti, tantissimi difetti ma che però mi regala momenti e paesaggi unici, sicché mi pareva una buona occasione per rispolverare un brano storico, che ha fatto discutere molto, ma che sicuramente va interpretato in modo più attento rispetto ad una lettura superficiale.

E’ abbastanza  evidente che la canzone è stata scritta in risposta ad un paio di brani di Neil Young, Southern Man e per l’appunto Alabama, nei quali veniva fatto un quadro non proprio carino degli stati del Sud, con ampi riferimenti al passato schiavista, al Ku Klux Klan, al razzismo e alle violenze nei confronti della popolazione di colore.

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La reazione dei Lynyrd Skynyrd è spesso stata interpretata come una rinascita dell’orgoglio sudista, una rivolta contro le critiche dei liberali ed un vero e proprio inno alla bellezza degli stati del Sud, dove il cielo è più blu… L’ambiguità è cresciuta col tempo per l’uso frequente delle bandiere sudiste ai loro concerti, anche se pare che questo abbia suscitato più di un imbarazzo nella band, soprattutto in America, visto che la Confederate Flag era un po’ un simbolo dell’America Sudista, conservatrice, redneck e in parte razzista, cosa che la band non voleva certo rappresentare, come dichiarato più volte dal cantante Ronnie Van Zant. Il chiaro riferimento a Neil Young, invece, era sicuramente una critica verso il cantante canadese, ma non una vera e propria accusa. In un’intervista del 1975 Ronnie Van Zandt aveva commentato che la canzone era nata più che altro come uno scherzo e una presa in giro di Neil Young, che, secondo Ronnie, “aveva voluto sparare a tutte le anatre per abbatterne solo una o due”. E quindi, come dice la canzone, “un uomo del sud può anche fare a meno di lui”. Ronnie, invece, è sempre stato un grande fan di Neil, tanto da farsi vedere spesso con una sua t-shirt. Persino sulla copertina dell’album degli Skynyrd  “Street Survivors”, si può vedere Ronnie Van Zant ritratto con addosso la maglietta di Neil Young. E’ abbastanza evidente, quindi, che  i Lynyrd Skynyrd non avevano nessuna intenzione di montare una polemica con Neil Young, con il quale condividevano probabilmente più punti di vista che con i sudisti più sfegatati. La stima reciproca è ulteriormente dimostrata dal fatto che la canzone Powderfinger era stata proposta da Neil Young proprio a Ronnie Vand Zant per registrarla con i Lynyrd Skynyrd, anche se poi il tragico incidente aereo che coinvolse la band nel 1977 impedì la realizzazione del progetto.

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La seconda strofa di Sweet Home Alabama ha dato motivo di ulteriori critiche verso la band, per la frase che dice  che a Birmingham (Alabama) amassero il Governatore  George Wallace, noto segregazionista. Anche qui però il significato è stato probabilmente male interpretato , in quanto l’aggiunta dei 3 “boo”, secondo i Lynyrd Skynyrd, doveva sottolineare l’ironia della frase. Chi vede gli Skynyrd come dei conservatori razzisti spiega la strofa più o meno così: qui in Alabama ci va bene il governatore razzista e dello scandalo Watergate non ce ne frega niente. Una visione più aperta del testo, lo interpreta invece così: qui abbiamo un governatore razzista, per quanto abbiamo fatto il possibile perché non fosse eletto (now we all did what we could do); cosa dovremmo dire allora del Watergate? Voi al nord vi sentite davvero in colpa per questo (does your conscience bother you)? Alla peggio, si può interpretare come un “ognuno ha i propri difetti: non venite a farci la morale”.

L’ultima strofa, infine, inneggia alla musica popolare locale dell’Alabama, che alla fine ci fa stare meglio quando siamo giù di morale (pick me up when I’m feeling blue). Con questo finale i Lynyrd Skynyrd sembrano voler smorzare tutte le polemiche, inneggiando semplicemente all’ allegria della musica del sud, allegria che la stessa Sweet Home Alabama non finirà mai di trasmetterci…

#TimeOfRock – la leggenda di Robert Johnson

Come ogni settimana torna #TimeOfRock, la rubrica di musica che prova a portare l’immaginazione indietro nel tempo, parlando del Rock,  il Rock, quello con la R maiuscola, quello degli anni ’60 e ’70 quello che nasce da Elvis, Beatles e Rolling Stones e continua con Led Zeppelin, Deep Purple, Bob Dylan e molti altri.

La leggenda del chitarrista del diavolo…

Robert Johnson nacque nel 1911 sulle rive del Missisipi. Qui cominciò a suonare, apprendendo i primi rudimenti da due bluesmen locali, Charlie Patton e Willie Brown. Si sposò all’età di diciassette anni, ma la moglie morì di parto l’anno successivo. Dopo questo evento tragico Johnson si immerse sempre più nella musica… Johnson però non era affatto un prodigio, anzi sembra che non avesse alcuna particolare dote musicale. In seguito smise il suo lavoro di contadino e prese a girovagare. Finì a Hazelhurst, Mississippi, la sua città natale, alla ricerca del vero padre, Noah Webster. Non riuscì a rintracciarlo ma trovò, invece, il suo vero mentore, uno sconosciuto bluesman di nome Ike Zinneman. Robert Johnson morìa soli ventisette anni, ma la sua figura leggendaria è diventata un’icona nella storia della chitarra blues, soprattutto per la generazione dei chitarristi anni sessanta, primi tra tutti Eric Clapton e Keith Richards. Entrambi hanno infatti inciso brani cover o ispirati a Johnson, come Love in Vain o Crossroad, che sono diventati capisaldi del loro repertorio.

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La leggenda che vede protagonista Robert Johnson narra che, sparito dalla circolazione per due anni, tornò mostrando uno strabiliante miglioramento tecnico alla chitarra. Il suo stile chitarristico semplice ed evocativo fornì il perfetto complemento alla sua voce; il suo stile quasi contrappuntistico nel suonare la chitarra sviluppava delle linee melodiche dal canto, in un intreccio chiaramente polifonico. Per questo fu accusato di aver stretto un patto con il demonio, e le tematiche agghiaccianti dei suoi testi non tendevano certo a minimizzare questa sua nomea.

Incubi, cani infernali e incroci misteriosi sono un’espressione della sua anima oscura e blues per eccellenza, che hanno fatto camminare la sua storia, fino a consolidarlo nel mito della musica quale prototipo di musicista maledetto, che ben si accosta all’indole ribelle di molti giovani, soprattutto musicisti che l’hanno amato e continuano ad amarlo.

D’altro canto i suoi brani erano molto ben eseguiti e, nonostante le scarse tecniche d’incisione di quegli anni, conservano tuttora un grande fascino grazie alla musicalità avanzata, soprattutto nel connubio tra chitarra e voce, difficilmente raggiungibile anche oggi. Purtroppo Johnson ha registrato due sole volte, lasciando questo mondo molto presto a causa della gelosia di un proprietario di un locale, ma sulla sua morte ci sono parecchie ombre, persino sul posto dove sarebbe sepolto.

Nonostante tutto, molti dei suoi brani fanno parte del repertorio di gruppi e solisti del Blues, a cominciare da Terraplane Blues, Cross Road Blues, Sweet Home Chicago, I Belive I’ll Dust My Boom e Come on in my Kitchen, senza citare le sue canzoni più inquietanti, che nemmeno i suoi più fedeli ammiratori hanno mai provato a suonare in pubblico…