Bucha e il suo mondo in bilico tra cantautorato e rap

Di Manuel Saad

CC2A9814Il progetto del giovane romano Giorgio Di Mario, in arte Bucha, si è concretizzato con l’uscita del suo primo album “Alla fine volevo solo pagare una cena a mia madre”: nove brani che buttano fuori tutto quello che un 23enne nasconde dentro di sé.
Lo abbiamo intervistato per farci raccontare un po’ del suo mondo.

“Alla fine volevo solo pagare una cena a mia madre”. Com’è nata l’idea di chiamare così il tuo primo album?

Da un’intervista come questa. Era una risposta che ho dato al mio interlocutore e mi sembrava racchiudesse dentro tutto quello che volevo esprimere con questo progetto. È un titolo fuori dai canoni di marketing, difficile da ricordare ma che allo stesso tempo incuriosisce.

“Rotazione”, “Traslazione” e “Rivoluzione” sono tre singoli con tre titoli forti. Cos’hanno in comune questi tre pezzi e cosa li differenzia totalmente?

Nascono in periodi diversi, hanno sonorità molto diverse, ma sono accomunate dall’attesa di un treno, da una donna e da un cocktail pieno di ghiaccio. Fanno parte di una piccola demo, chiamata “Anni-Luce”, che aveva lo scopo di sancire la distanza tra me e la scena attuale. “Rivoluzione” e “Rotazione” sono entrate nel disco, a differenza di “Traslazione” che è rimasta fuori, ma sono legato in particolar modo a quel brano e tutti i live vengono aperti da quella canzone.

Molte volte, un brano mette a nudo l’artista. Qual è stato il brano, in quest’album, con cui hai avuto più difficoltà nella scrittura, da questo punto di vista?

Forse “Capodoglio 216” visto che ci ho messo un paio di mesi a chiuderlo. È un pezzo molto profondo e personale, e trovare le parole giuste non è stato semplice, ma a livello di scrittura è sicuramente tra i migliori del disco.

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Come ti sei avvicinato alla musica ed in particolare al mondo del rap?

Sono nato con la radio accesa. Da bambino, in casa mia e in quella dei miei nonni con cui sono cresciuto, ascoltavo solo cantautorato italiano. Durante il periodo delle medie ho ascoltato molto rock, punk e metal, per poi arrivare al rap. È successo completamente a caso, e pian piano ho capito che il rap riusciva a rendere meglio i concetti e le tematiche che scrivevo.

Cosa vuol dire fare rap in una città come Roma?

Provare ad emergere in un mare di squali

In un’intervista, hai detto una cosa molto importante: “È importante capire il perché una persona dovrebbe apprezzare la vostra arte. Se hai qualcosa da dire, la gente se ne accorge.”
A questo punto ti chiedo cosa contraddistingue Bucha. Cosa ha da dire?

Bisognerebbe chiederlo a chi mi ascolta. Io mi limito a cercare di migliorare ogni giorno la mia scrittura, di arrivare meglio al punto, di provare a parlare anche di quello che mi fa più male, di mettermi il più a nudo possibile senza paura delle conseguenze. Il resto sta al pubblico e di come assimila ciò che scrivo.